A Trieste, dal 18 marzo, Io Lei e L’Altra racconta la ricerca dell’identità femminile e della sua rappresentazione nei secoli

Man Ray ne era certo. Nelle fotografie, le donne si accontentavano soprattutto di apparire giovani e belle, mentre gli uomini, loro sì, avevano una idea molto più sofisticata della loro immagine, volevano che lo scatto gli conferisse autorevolezza, sex appeal, potere oppure intelligenza. Esattamente il contrario di quello che emerge dalla mostra Io, lei, l’altra. Ritratti e autoritratti fotografici di donne artiste che il 18 marzo inaugura al Magazzino delle idee a Trieste.

Tra le 90 opere presenti nell’esposizione, prodotta e organizzata da ERPAC (Ente Regionale per il Patrimonio Culturale del Friuli Venezia Giulia), si scorgono volti dal sorriso sornione, femme fatale ironiche in bianco e nero, nudi statuari e potenti, corpi danzanti e inafferrabili davanti all’obbiettivo.

“Impossibile mettere in una unica categoria le donne protagoniste della mostra” spiega Simona Cossu, curatrice insieme a Guido Comis e Alessandra Paulitti. “Il tema principale del percorso espositivo è la ricerca dell’identità, della sua emancipazione e ancora prima del ruolo della donna. Come si è modificato in questi secoli? La donna è passata da modella, a volte assistente al servizio di un artista a figura creativa e finalmente attiva”.

Uomini e donne a confronto

Circa una trentina i prestatori, tra fondazioni, musei, collezionisti privati e archivi: ai ritratti eseguiti da uomini – quelli di Man Ray, Edward Weston, Henry Cartier-Bresson, Robert Mapplethorpe – vengono accostati ritratti e autoritratti di donne artiste e fotografe – Wanda Wulz, Inge Morath, Vivian Maier, Nan Goldin, Cindy Sherman, Marina Abramović.

“Direi che l’aspetto più interessante della mostra” conferma Guido Comis “è quello di mettere a confronto due punti di vista diversi, poiché alcuni ritratti e autoritratti sono realizzati da donne, mentre altri hanno mano maschile. Il confronto è quindi tra rappresentare ed essere rappresentati”.

C’è un dettaglio particolare: tutte sono artiste, alcune sono modelle come Tina Modotti, la marchesa Luisa Casati, Meret Oppenheim, Annie Leibovitz. Certo, ci siamo concessi qualche deroga” sottolinea “come Oriana Fallaci, Madonna, Peggy Guggenheim, molto vicine al mondo dell’arte e consapevoli di cosa comporti mettersi davanti alla macchina fotografica, figure che non si accontentano di apparire così, ma con una idea particolare e per cui la fotografia rappresenta un mezzo di autointrospezione e autoanalisi”.

Una storia che inizia nel Medioevo

“Tutto inizia idealmente dalla fine del Medioevo” torna a spiegare Simona Cossu “quando le donne venivano coinvolte nelle arti ma in mestieri non riconosciuti, come la realizzazione di miniature di manoscritti. Si arriva poi agli inizi del ‘900, ma la donna resta comunque assente negli esordi della fotografia.

Solo verso gli anni ‘20 e ‘30 riesce a conquistare il suo ruolo”. Basti pensare a Berenice Abbott, oppure alla stessa Lee Miller, assistenti e muse di Man Ray, che nell’autobiografia del fotografo americano non vengono nemmeno citate, nonostante la fama da fotoreporter. “L’ideale femminista” conclude Cossu “inizia a prendere forma negli anni ’20 del 900, quando la fotografia viene percepita come un mezzo di comunicazione per le donne impegnate.

Prima la donna fotografava sempre l’ambito domestico e la dimensione era quella casalinga, la donna finalmente si affaccia alla società, alla politica e alla cultura che fino ad allora erano un appannaggio degli uomini. Negli anni ’60 e ‘70 il corpo femminile diventa un tema controverso, come negli scatti di Francesca Woodman o Nan Goldin. Marina Abramović nel suo autoritratto mostra sulla pancia una stella di David, poi ci sono le immagini di Inge Morath, Cindy Sherman, Wanda Wulz, o le foto di Paola Mattioli.

La donna nella comunicazione commerciale

“Negli anni 70 l’immagine della donna era quella che passava attraverso la pubblicità e la televisione” la fotografa milanese Paola Mattioli, allieva del filosofo Enzo Paci e assistente di Ugo Mulas, nel 2020 ha curato la campagna autunno/inverno 2020-21 di Dior ispirata al femminismo.

“Le fotografie fatte dalle autrici come me tendevano a riportare l’immagine femminile verso la normalità, in contrapposizione allo stereotipo patriarcale che riconosciamo ancora oggi. Negli anni ‘70 c’è un grande scollamento tra quello che la donna doveva essere agli occhi altrui e quello che realmente era, si vive un periodo di grande libertà femminile, più che di rivendicazione, in cui la macchina fotografica diventa utile e viene utilizzata con grande piacere”.

Spiega a proposito di un suo autoritratto presente in mostra “Quell’immagine non ha nulla di statico, è in continuo movimento, rappresenta il desiderio di nascondersi, di non volersi far prendere e definire. È uno scatto che vuole dire: non ce la farai a prendermi, sono inafferrabile, inclassificabile”. Come ogni donna.

Cover photo: Deborah Feingold, Annie Lennox, New York 1983 – Courtesy photo