Presentato in vari festival internazionali, arriva al cinema il docufilm su Carlo Scarpa e il suo profondo legame con il Giappone. Lo abbiamo visto in anteprima, in compagnia dei registi Silvia Siberini e Stefano Croci

Si intitola Il padiglione sull’acqua il film di Silvia Siberini e Stefano Croci dedicato a Carlo Scarpa con un riferimento, già nel titolo, a quel padiglioncino, come lo chiamava lui, che l’architetto ha disegnato per il memoriale Brion.

Un biopic che parla di Scarpa e del suo legame con il Giappone. Una fascinazione profonda, una conoscenza intima e anche un legame indissolubile con un mondo così lontano e così vicino da poterlo quasi respirare.

Che cos’è la bellezza? È questa la domanda che accompagna il pubblico dall'inizio alla fine del lungometraggio, per coincidere in una risposta lunga quanto la vita di Carlo Scarpa e del suo lavoro. Si va nei suoi luoghi, quelli che ha realizzato e quelli dei suoi artigiani, quelli che ha vissuto e quelli che ha amato per riflettere sull’architettura, una possibile declinazione della bellezza.

«Volevamo portare il pubblico in uno stato meditativo», spiega Stefano Croci, «per comprendere gli spazi di Scarpa. Ecco perché abbiamo scelto di intitolarlo Il padiglione sull'acqua: quella struttura era stata pensata da Scarpa per accogliere riflessioni sulla vita e la morte prima di accedere alla tomba Brion. Il nostro è un film sul suo insegnamento su cosa significhi fare un’opera d’arte».

Si va in Giappone, per visitare il tempio di Ise, un luogo magico, immerso nella natura, che esiste da oltre un millennio, ma che viene ricostruito ogni 20 anni, emblema di quel legame tra caducità ed eternità che in Giappone ha a che fare con il rinnovamento della vita e il suo presente, insieme a un esistere perpetuo. Come un bosco. Come l’acqua, come il tempo.

Si va a Venezia, città magica fatta di acqua che scorre, sempre nuova, lungo edifici della storia dell’uomo. Si visita poi il memoriale Brion, opera eccezionale e forse la sintesi del pensiero di Scarpa, un luogo dove il filosofo giapponese Ryōsuke Ōhashi che interviene nel docufilm, si è sentito a casa: lo ha percepito contemporaneamente vicino e lontano.

«Sentirsi insieme vicini e lontani è un concetto della cultura giapponese», spiega Silvia Siberini, che dopo la laurea in filosofia si è specializzata in Culture e Civiltà Orientali e in particolare in lingua giapponese, «è un’esperienza specifica di percepire due elementi contemporaneamente. E alla tomba Brion si traduce nell’esperienza di due dimensioni, quella occidentale e quella orientale, riunite in un unico luogo».

Quell’esperienza diventa propria dello spettatore che entra piano nella lentezza di un film sul tempo di due culture così lontane e così vicine, raccontate attraverso lo spazio.

«Abbiamo filmato in Giappone le stesse atmosfere presenti in Scarpa, l’acqua, la natura, le piante, i suoni creati dagli elementi naturali. C’è un ritmo che è sia musicale sia naturale».

Quello che viene a crearsi è un mondo, in cui il visitatore si immerge. Esattamente come nelle architetture di Scarpa: «La dimensione che si apre nelle sue architetture è quella dell’ascolto. Ma è un ascolto diverso, che deve avvenire con tutti i sensi, nella comprensione di una dimensione totale di chi vive gli spazi», spiega ancora Siberini.

E lei insieme a Stefano Croci, per realizzare questo film, hanno trascorso un lungo tempo nei luoghi dell’architetto veneziano, li hanno ascoltati in stagioni diverse, in anni diversi con luci diverse, fino ad addomesticarli. Anzi, ad addomesticare se stessi a quei luoghi e a quelle luci, tra riflessi e giochi di ombre.

Già, la luce. O meglio, l’ombra. Si può definire uno spazio grazie all’ombra? L’architettura di Scarpa in effetti è fatta di tagli di luce, di pieni che impongono passaggi stretti che illuminano un’oscurità, oppure determinano un passaggio dell’acqua. Ma è ancora la luce a disegnare gli esterni, continuamente invitati a giocare con i riflessi che creano negli specchi d’acqua, o con il passaggio del tempo sulle loro facciate, capaci di disegnare ogni volta lo stesso disegno che, minuti dopo, non sarà più.

«C’è un libro molto amato da Scarpa che abbiamo usato come sottotetto ed è Libro d’ombra di TanizaliJun’ichirō», spiega Siberini. Che poi procede: «La parola giapponese Kire indica il taglio. Il taglio tra vita e morte, ma in ambito estetico ha applicazioni diverse, per esempio si usa anche nell’Ikebana: il fiore reciso ha un altro significato rispetto a quello che aveva un attimo prima di essere tagliato. Lo stesso accade con la luce: un taglio di luce caratterizza diversamente uno spazio d’ombra, come si vede bene nelle architetture giapponesi».

E Scarpa? «Abbiamo voluto filmare tutto questo, per esempio lo abbiamo fatto nella gipsoteca canoviana», risponde Croci, dove il sole sull’acqua in movimento si riflette dietro le sculture del Canova, come a dimostrare l’uso architettonico della luce ad opera di Scarpa. Che è proprio l’architetto della luce».