Chi era davvero Joe Colombo, il designer che negli anni ’70 inventava il futuro? Ce lo ha spiegato la curatrice della mostra “Caro Joe Colombo” (alla GAM di Milano fino al 4 settembre), Ignazia Favata che fu sua assistente

Dal 24 maggio, la mostra Caro Joe Colombo ci hai insegnato il futuro alla GAM di Milano (fino al 4 settembre) racconta la storia e le idee del grande maestro che ha anticipato le sfide di oggi, dal design alla tecnologia, alla società.

Ne abbiamo parlato con la curatrice, l’architetto Ignazia Favata, che fu assistente storica assistente di Joe Colombo nello studio di Milano.

"Joe Colombo",  ci ha detto Favata, "ci ha insegnato quanto è importante sapere cambiare, guardare avanti con ottimismo, trasformarsi continuamente. Per noi, ma anche per gli arredi e gli oggetti che ci accompagnano ogni giorno. Una filosofia che ha declinato in ogni progetto, a partire da quello di casa sua, una macchina abitata da piccoli robot, da trasformare a seconda dell’esigenza".

Per capire la portata rivoluzionaria del modo di progettare di Joe Colombo, Ignazia Favata ci ricorda che chiunque entrasse in contatto con il suo lavoro "restava sconvolto". Successe ai giornalisti del New York Times, che in occasione della grande mostra sul design italiano del '72 titolarono  America discovers Colombo. E all’amica Gae Aulenti, a cui durante un viaggio in aereo raccontò di quando in futuro avremmo tutti portato in giro con noi un telefono personale, senza fili. Alla fine, come sappiamo, aveva ragione lui...

Ignazia Favara, come molti geni anche Joe Colombo aveva una formazione davvero trasversale. È per questo ha saputo inventare il futuro?

Era incredibilmente curioso, si interessava a tutto, era la sua qualità principale, prima ancora della sua straordinaria capacità nel disegno tecnico. E poi, sì, per la sua formazione. Aveva studiato a Brera e al Politecnico, si interessava di psicologia, suonava diversi strumenti, dalla batteria al sax, amava il jazz e la montagna, un tempo mi aveva persino raccontato che era stato sciatore professionista. Sapeva mettere insieme conoscenze ed esperienze ed era proprio questa sua capacità di immersione nel presente e, nello stesso tempo, di astrazione a renderlo così visionario e anticipatore.

Più esperienze si fanno nella vita, in ambienti diversi, più si stratificano le informazioni e si forma un qualcosa che ti permette di vedere ciò che tanti altri non vedono. Alvar AAlto aveva progettato arredi lavorando il legno in un modo totalmente diverso proprio perché andava in barca.

Joe Colombo guardava sempre avanti, negava addirittura la tradizione, era proprio un suo sentire, era così interessato al futuro che anche quando usava materiali tradizionali li progettava in modo originale, cosa che ho voluto mettere in luce nella mostra. Nella poltroncina di Bonacina, per esempio, ha utilizzato il giunco in modo continuo, giuntava i bastoni e li curvava senza bisogno di fare nodi.

Cosa resta oggi del suo modo di progettare?

È rimasta una certa capacità di partire dalla funzionalità, quello che dovrebbero fare tutti, con la differenza che oggi alcuni progettisti partono dall’immagine e dall’estetica, cosa che Joe non faceva assolutamente, solo nei primissimi schizzi c’era la ricerca di una forma. Lui procedeva come si fa nell’industria, dove non si progetta da sinistra a destra, ovvero, si parte da un pezzo e se ne attaccano altri, utilizzando molto più di quanto sia necessario. Lui impostava il lavoro sulla massima funzionalità e in base a quella, riduceva tutti i pezzi.

Una capacità che aveva imparato quando aveva preso in mano l’industria paterna, che faceva cavi elettrici. Di sicuro aveva in mente un’immagine quando iniziava a progettare, perché veniva dal mondo artistico, ma lui negava quel periodo perché voleva essere un tecnico. Infatti, frequentava le fiere di meccanica in Germania, portava in studio i cataloghi della minuteria, degli accessori per le cucine, delle cerniere. Noi non capivamo niente di tedesco, meno male che c’erano le illustrazioni.

Erano la nostra fonte d’ispirazione, ma poi le ridisegnavamo cambiandone la forma, perché si faceva tutto su misura. Un giorno è arrivato in studio con una lampadina industriale, da 500 watt, ha fatto un piccolo schizzo ed è nata l’alogena Colombo 626, una lampada essenziale con una parabolina riflettente e una lamiera piegata con diversi tagli per disperdere il calore, nulla di più. I suoi schizzi erano ragionamenti, gli oggetti dovevano essere prolungamenti del corpo umano.

È stato tra i primi a creare delle equipe di lavoro per i suoi progetti. Psicoterapeuti e medici sono citati come design consultant, perché?

Proprio ai tempi si iniziavano a scoprire le potenzialità della psicologia, ma tutti pensavano che dialogare con i terapeuti volesse dire essere un po’ matti, quindi non si diceva in giro.

Nel caso di Joe Colombo era il frutto di un’amicizia con Tullio Bonaretti (psichiatra ed esperto di sperimentazione sensoriale, ndr) che ha influito nella sua formazione in modo trasversale, specialmente nella progettazione dell’habitat futuribile Visiona 1, ideato insieme a lui e ad Antonio Grieco (ergonomo, ndr), l’allora direttore della prestigiosa Clinica del lavoro di Milano, che ai tempi era una nuova disciplina di studio, la letteratura esistente era solo americana.

Lui ci illuminava su tutti i problemi che potevano derivare dal rapporto tra il corpo umano e le macchine e su come affrontarli per qualsiasi strumento volessimo progettare. Joe Colombo ci ha insegnato che ogni volta che si studia qualcosa di complesso ci vuole un’equipe di tecnici con cui confrontarsi.

Cosa la colpiva di più di lui?

Era una mente instancabile, quando viaggiava arrivava con pacchi di schizzi, non si fermava mai. Il disegno lo rilassava e lo aiutava a comunicare. Mentre lavorava era silenzioso, pacato, gentile, sembrava molto tranquillo. In realtà non si vedeva, ma era agitatissimo, doveva fare, fare e fare, non stava fermo un attimo, giusto quando si chiudeva nel suo studio per fare delle telefonate stava seduto.

Ma quando riemergeva ce n’era per tutti, mettevamo continuamente mano ai disegni per perfezionarli e per consegnare il lavoro dovevamo togliergli i fogli di mano. Infatti, sui lucidi in mostra si vedono tutte le sue correzioni. Aggiungeva particolari, nuove funzionalità. Disegnava tutto a schizzi a matita su fogli A4, spesso erano ritagli di copie perché non buttavamo niente.

C’era una frase che ripeteva spesso quando era in studio?

Sì, mi fa ancora ridere, diceva "Cià, cià", alla milanese, come dire dai, dai, muoviamoci. A volte muoveva solo la mano.

Colpisce la sua visione del futuro piena di gioia, non è distopico come nelle serie di oggi. Era un ottimista?

Assolutamente, era pieno di entusiasmo per tutto quello che faceva, quando guardava qualcosa aveva la capacità di vedercene dentro un’altra, diceva spesso: "Guarda come si trasforma quell’oggetto se diventa più piccolo". Così, lo riduceva di scala e con un po’ di modifiche gli cambiava la funzione. E questa è la sua più grande eredità, sapere vedere i diversi e possibili utilizzi dell’oggetto che progettava, integrarli, modificarli, ribaltarli, che fosse un ambiente domestico, un arredo modulare o una minicucina trasformabile (quella di Boffi, tuttora in produzione, ndr).

Un giorno mi ha persino chiamata Casa Buonarroti per mettere in relazione il lavoro di Michelangelo con quello di diversi esponenti del Novecento. Si erano così entusiasmati per Joe Colombo che hanno pubblicato più pagine di confronti tra i loro due metodi di lavoro. All’inizio pensavo mi prendessero in giro, poi mi hanno mandato uno suo schizzo per un leggio da biblioteca e mi sono ricreduta. Da una parte rappresentava la persona seduta e dall’altra in piedi. Era proprio lo stesso metodo di Joe, che per ogni oggetto, anche il più semplice, proponeva qualche integrazione di funzionalità.

In che casa viveva?

Casa sua era il manifesto del suo pensiero, chiunque entrasse rimaneva scioccato. Aveva fatto demolire le pareti interne creando un ambiente unico, diviso tra notte e giorno, con due grandi 'macchine' per dormire e per mangiare, con cruscotti, strumenti, programmi da attivare. Erano come due elettrodomestici fuori formato, con cui divertirsi a sperimentare nuove funzioni.

Da una parte il letto Cabriolet, con la capote e un soffietto in cui ci si poteva chiudere per isolarsi, dall’altra un mobile con una faccia attrezzata a soggiorno e una a pranzo, bastava girarlo. Il retro del letto era un armadio attrezzato per fare da guardaroba. Aveva progettato anche le prime porte a soffietto con due binari diversi, uno che poteva separare tutto il soggiorno, l’altro che arrivava per isolarne solo una parte.

Oggi, con lo smart work, tutti hanno capito quando sia difficile convivere, non tanto vivere in un ambiente. Si può anche stare in uno spazio piccolo come una tana, ma il successo sta nella capacità di adattarsi l’uno all’altro e di saper dividere gli spazi, lui l’aveva intuito in tempi non sospetti e così aveva progettato arredi che rispondessero a questa necessità.

Da dove viene il nome Joe?

È una storia nata nel dopoguerra, da ragazzo, quando era nel Movimento Nucleare. Gli amici lo chiamavano Joe il Rosso, era un nomignolo che veniva dalla nuova contaminazione con il mondo americano e dal fatto che lui, da ragazzo, avesse la barba e i capelli rossi.