Il primo vero grande tentativo di decolonizzazione dell’arte non ha davvero indagato i meccanismi che muovono i sistemi che provocano l’emarginazione: un bilancio sulla Biennale a pochi giorni dalla chiusura

Era stata annunciata come la Biennale più inclusiva, meno eurocentrica e più outsider delle precedenti sessanta edizioni.

Merito del direttore Adriano Pedrosa (ne avevamo scritto qui), primo curatore sudamericano (e queer) a guidare la kermesse artistica più importante del pianeta.

Ma, ora che il sipario si sta per chiudere, che manifestazione è stata? Qual è il bilancio? Le promesse sono state mantenute oppure c’è stato il solito molto rumore per nulla?

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Diciamo innanzitutto che abbiamo assistito al primo vero grande tentativo di decolonizzazione dell’arte dopo secoli di dominio occidentale. E già questo per alcuni meriterebbe un applauso scrosciante.

Il sud del mondo, gli ex paesi in via di sviluppo, le comunità native, gli indigeni e i queer che Pedrosa è andato a scovare in giro per i vari continenti, hanno fatto sentire per la prima volta la loro voce da un palcoscenico istituzionale.

Su di esso sono saliti popoli abusati, colonizzati, emarginati, protagonisti di diritti negati, di migrazioni, di guerre e di esclusioni. Soggetti costretti ai margini a causa del loro orientamento politico o sessuale, o per il colore della loro pelle o, ancora, per il loro passaporto. Mica roba da poco.

Biennale Arte 2024: un'operazione a metà?

Peccato però che tutte queste figure artistiche si sono mosse all’interno di un’impalcatura retta da tubi, giunti e piattaforme forgiate ad Ovest.

L’esercito di outsider che il direttore ha portato in Laguna si è raccolto dentro una struttura governata da regole occidentali. Quasi una beffa.

Per i critici più spietati, infatti, Foreigners Everywhere ha riaffermato i diritti di genere ma non ha davvero indagato i meccanismi che muovono i sistemi che provocano l’emarginazione vissuta dagli artisti portati all a luce. Insomma, seppur apprezzabile è stata un’operazione a metà.

È forse proprio questo il primo vero controsenso di un progetto ambizioso con moltissimi punti a favore: dalla fluidità del percorso espositivo che ha reso facilmente “assimilabili” i concetti base espressi dall’esibizione centrale fino alla possibilità di approfondire la poetica dei molti artisti coinvolti, grazie alla presenza in mostra di molti loro lavori.

I detrattori del piano firmato Pedrosa hanno poi sottolineato come questa sua spasmodica ricerca nel coinvolgere emarginati abbia di fatto dato più spazio al loro status che all’opera d’arte in sé.

Se ai più è sembrato “buono e giusto” riportare alla luce tutti quegli stranieri (dove la parola straniero va intesa in senso lato) costretti a restare nell’ombra per secoli; a molti altri, forse più politicamente scorretti o semplicemente più sinceri, questa regola d’ingaggio ha spesso messo in evidenza sculture, installazioni e dipinti non sempre all’altezza della situazione. E ancora.

Dove sono finiti i nuovi media?

Al Centro della Biennale è stata messa l’artigianalità e il lavoro manuale: dai dipinti agli arazzi, dai collage ai tappeti. Un ritorno al savoir faire, in un’epoca ipertecnologica, dominata intelligenze artificiali, che ha avuto l’effetto di un balsamo.

Ma proprio quest’ultimo punto contiene anche un risvolto della medaglia: se da un lato ha giocato un ruolo di primo piano la materialità, dall’altro l’assenza pressoché totale di nuovi media e tecnologie interattive ha lasciato un vuoto.

Gli universi digitali, immersivi e interattivi esistono sia nella vita di tutti i giorni che nell’arte. È un dato di fatto. E curatori, direttori di musei e esperti di settore devono farci i conti senza far finta che non esistano.

Le opere: da soggetto a contorno

Last but not least, il ruolo delle mostre collaterali. Il frullatore politicoantropologico e sociale in cui si è infilata la Biennale numero 60 ha spesso fatto perdere di vista l’elemento cardine che muove tutto il sistema: le opere.

Ebbene, moltissime soddisfazioni in tal senso, salvo rare eccezioni (vedi la partecipazione della Santa Sede con la mostra Con i miei occhi sul tema dei diritti umani alla Casa di detenzione femminile della Giudecca) si sono avute lontano dai padiglioni.

È il caso della della mostra Janus, voluta dal collezionista Nicolas Berggruen a Palazzo Diedo, dove hanno fatto breccia nei cuori di collezionisti e appassionati gli 11 interventi site-specific realizzati da artisti come Urs Fischer, Carsten Höller, Ibrahim Mahama, Sterling Ruby, Hiroshi Sugimoto e Lee Ufan e Liu Wei.

O di Liminal, ambiziosissimo show targato Pierre Huyghe a Punta della Dogana sul rapporto tra l’umano e il non umano e sul modo in cui percepiamo la realtà, da una prospettiva altra rispetto a quella umana.

O, infine, della toccante City of Refuge III dell’artista belga Berlinde De Bruyckere: mostra concepita per gli spazi sacri dell’Abbazia di San Giorgio Maggiore dove sculture di arcangeli e installazioni varie hanno invitato il pubblico a riflettere sulle dualità di amore e sofferenza, pericolo e protezione, vita e morte.

Tutti temi universali, che commuovono ed emozionano ad ogni latitudine, dalla Times Square fino al centro più sperduto della Patagonia. Il messaggio finale, forse il più elementare di tutti, è proprio questo: dopo tanto dibattere, discutere e confrontarsi sul senso dell’arte, a prevalere su ogni tipo di analisi sono sempre loro: le emozioni.

Foto di copertina: Saywho, Ludovica Arcero