Una retrospettiva che toccherà varie città porta in India la poetica di Andrea Anastasio, il progettista-filosofo. In mostra, una selezione di lavori realizzati nella sua trentennale attività che ha sempre fatto della dicotomia un tema di progettualità

Andrea Anastasio è un progettista che viene dal mondo della filosofia.

Il suo lavoro sfugge alle definizioni univoche e questo è evidente nella sua recente retrospettiva in India, Binary Codex, che sarà in itinere fino a giugno del 2023, ospitata nei musei delle città che sono state più significative nella sua pluridecennale frequentazione della nazione.

Qui emergono i diversi elementi paralleli della sua pratica progettuale: artigianale e industriale, serie aperta e limitata, arte e design, Oriente e Occidente.

Lo abbiamo incontrato per ripercorrerne i passaggi e farci spiegare meglio la sua visione delle cose.

Le coppie di antinomie, che scandiscono le opere presenti nella mostra, spesso sono state lette in contrapposizione. Ma nel tuo percorso la dicotomia non è un concetto negativo, al contrario è portatore di progettualità. Puoi spiegarci come vivi questo dialogo costante tra gli elementi?

Ci sono voluti molti anni di pratica prima di comprendere le mie modalità progettuali.

All’inizio ero motivato da istanze formali e dalla necessità di connotare i miei lavori con cromatismi ludici e fauves al tempo stesso.

Certamente erano già presenti elementi progettuali e filosofici che, successivamente, ho potuto approfondire e mettere a fuoco; ma l’influsso di Memphis e di Alchimia, la priorità data alla superficie, alla texture, alla presenza totemica dell’oggetto hanno caratterizzato fortemente gli inizi del mio percorso.

Nella retrospettiva sono presenti alcuni lavori che non vedevo da più di trent’anni e che quasi non ricordavo più.

Nelle lampade composte per Artemide o negli oggetti disegnati per Memphis, per esempio, è ben visibile l’attenzione posta sulla dimensione artigianale, in particolare quella del vetro muranese e la sfida che questo comportava per un’azienda come Artemide, ben radicata nella riproducibilità dell’oggetto in numeri molto alti.

La cultura progettuale di quegli anni, in particolare quella di Sottsass e di Memphis, non contrapponeva la dimensione artigianale a quella industriale, bensì cercava di contaminarle reciprocamente, per riportare dentro il progetto tutti quegli elementi che il Moderno aveva escluso.

Per me, questo aspetto era molto importante e ne condividevo appieno le istanze. Nel tempo ho imparato ad affrontare altre dicotomie e, invece di porle come impasse, ne esploro il potenziale dialogico.

Il tema della fragilità è uno dei fili conduttori del tuo percorso di ricerca. Spesso lavori con materie frangibili come il vetro, la ceramica, la porcellana: quanto la materia definisce le tue riflessioni?

La fragilità è un aspetto particolarmente interessante non solo perché è simbolo della nostra condizione, così segnata da continue prese di coscienza dell’impossibilità di raggiungere sicurezze permanenti, ma anche perché trovo che sia antropologicamente molto potente.

Tutte le civiltà hanno generato storie e racconti che ne parlano.

A volte, incontrare nei musei oggetti fragilissimi, realizzati molti secoli prima, commuove e ci colpisce: non è solo fortuna quella che li ha fatti sopravvivere nel tempo, ma anche l’estrema cura, il desiderio di preservare a lungo una bellezza e una preziosità che ha governato, generazione dopo generazione, gesti e attenzione, anche e soprattutto in epoche di guerre e di saccheggi.

Dalle toccanti epigrafi romane fino alle storie zen, la fragilità ci rispecchia e si fa monito.

C’è anche un altro aspetto che trovo significativo: il vetro, la porcellana, la ceramica sono tutte materie che per essere formate passano nel fuoco.

Per quanto si viva oggi in una grande lontananza dalla sensibilità rituale, non posso non riflettere su questo aspetto: il fuoco, che quotidianamente ci permette di nutrirci, serve a fissare nel tempo cotture generate dal suo magico tocco trasformatore.

La luce è centrale nella tua storia progettuale: hai iniziato con le lampade per Artemide e da diversi anni lavori con Foscarini. Che differenza c’è tra progettare una luce o una lampada? Le due cose coincidono?

No, non coincidono nel modo più assoluto. Le lampade nascono per poter portare luce nello spazio, che sia domestico o lavorativo, laico o religioso, vestendola di sintassi e di registri narrativi capaci di stabilire relazioni tra chi vive gli spazi e la luce stessa, arricchendola di innumerevoli narrazioni.
Arrivano da molto lontano, e qui torniamo al fuoco, appunto; hanno a che fare, archetipicamente, infatti, con la capacità di governare il fuoco, che non è solamente calore, ma anche luce.
L’infinita gamma di fogge che le lampade a olio, a gas e a petrolio hanno preso nel tempo ce lo dimostra. Progettare la luce di uno spazio è qualcosa di diverso che, grazie anche alle tecnologie raffinate di cui disponiamo oggi, ci avvicina al desiderio antico di dematerializzazione.

Il concetto di tempo nelle tue opere e prodotti sembra spesso declinato come ‘durata’, dove la ripetizione, il gesto, l’azione hanno un loro peso. Qual è il ‘tuo’ tempo?

La mia tesi di laurea era incentrata sulla differenza tra tempo cronologico e tempo psicologico nella filosofia indiana.

Questo mi ha portato a riflettere molto sulla percezione dello scorrere del tempo che è sotteso alle pratiche artigianali. Mi sono convinto che il fare dell’uomo nasca dal desiderio di esorcizzare la morte.

La reiterazione dei gesti, la ciclicità delle stagioni, l’entrare in sospensione della mente sono aspetti fondamentali del fare che porto dentro il progetto e cerco di rendere sempre ben presenti.

Questo è anche uno dei motivi per cui raramente creo forme nuove. Quasi sempre lavoro con gli archivi, trasformando in ready made anche le materie, come ho fatto di recente nel lavoro con Ceramica Gatti e Foscarini.

Questo processo progettuale arriva anche dalla modalità contemplativa: mettersi di fronte a un oggetto e contemplarlo finché non comincia a offrirci tutto il suo potenziale, quell’‘ancora non detto’. O, come diceva Boetti: “Mettere al mondo il mondo”.

I tuoi oggetti spesso sfidano gli equilibri, sono in bilico, hanno una precarietà. Perché?

Per quello che ti dicevo prima sulla natura illusoria della nostra definizione di realtà: quando ci sono delle funzioni ben precise da assolvere, allora mi accerto che gli oggetti lo facciano bene, e che, allo stesso tempo, riescano ad accendere l’attenzione di chi li utilizza.

La funzione, secondo me, non si esaurisce mai nell’uso dell’oggetto, e qui risiede per me la possibilità di fondere due approcci disciplinari alla forma, quello dell’arte e quello del design.

Quindi è in questo incontro tra arte e design che entra in gioco ciò che definisci un ‘sabotaggio’? Ci spieghi cosa significa?

Il sabotaggio permette di liberare la forma dai condizionamenti culturali che la definiscono, sprigionando altre riflessioni e altri ordini di senso.

La lezione più importante che ho ricevuto da maestri straordinari con Bruno Munari, Ettore Sottsass, Alessandro Mendini, Andrea Branzi è stata quella di indagare l’oggetto e lo spazio dell’oggetto.

Se questa ricerca, inizialmente, passava attraverso la pelle delle cose, in seguito mi ha portato dentro il significato culturale della funzione.

In questo l’arte contemporanea mi ha dato degli strumenti molto più incisivi e mi ha permesso di essere ancora sedotto dall’oggetto, soprattutto quando, lasciando l’Italia agli inizi degli anni ’90, pensavo di non guardare più al design.

Ci sono infiniti modi di relazionarci alla funzione e spesso i miei progetti sono dei manifesti, degli inviti a guardare il mondo con occhi diversi.

È il motivo che mi spinge anche a prediligere i cortocircuiti linguistico/formali che spesso animano i miei progetti. L’obiettivo è quello di accendere l’attenzione e di ri-sedurre lo sguardo dello spettatore-fruitore.