Le coppie di antinomie, che scandiscono le opere presenti nella mostra, spesso sono state lette in contrapposizione. Ma nel tuo percorso la dicotomia non è un concetto negativo, al contrario è portatore di progettualità. Puoi spiegarci come vivi questo dialogo costante tra gli elementi?
Ci sono voluti molti anni di pratica prima di comprendere le mie modalità progettuali.
All’inizio ero motivato da istanze formali e dalla necessità di connotare i miei lavori con cromatismi ludici e fauves al tempo stesso.
Certamente erano già presenti elementi progettuali e filosofici che, successivamente, ho potuto approfondire e mettere a fuoco; ma l’influsso di Memphis e di Alchimia, la priorità data alla superficie, alla texture, alla presenza totemica dell’oggetto hanno caratterizzato fortemente gli inizi del mio percorso.
Nella retrospettiva sono presenti alcuni lavori che non vedevo da più di trent’anni e che quasi non ricordavo più.
Nelle lampade composte per Artemide o negli oggetti disegnati per Memphis, per esempio, è ben visibile l’attenzione posta sulla dimensione artigianale, in particolare quella del vetro muranese e la sfida che questo comportava per un’azienda come Artemide, ben radicata nella riproducibilità dell’oggetto in numeri molto alti.
La cultura progettuale di quegli anni, in particolare quella di Sottsass e di Memphis, non contrapponeva la dimensione artigianale a quella industriale, bensì cercava di contaminarle reciprocamente, per riportare dentro il progetto tutti quegli elementi che il Moderno aveva escluso.
Per me, questo aspetto era molto importante e ne condividevo appieno le istanze. Nel tempo ho imparato ad affrontare altre dicotomie e, invece di porle come impasse, ne esploro il potenziale dialogico.