Studio Visit di Alcantara (a cura di Domitilla Dardi, a Venezia fino al 2 giugno) è un’interessante esperimento che ragiona sul tema della curatela e fa riflettere sul ruolo dei marchi come co-produttori di cultura

Un’azienda che sostiene la produzione di un’opera d’arte fa qualcosa di lodevole. Un’azienda che diventa co-produttore di progetti fa invece qualcosa di notevole: si mette in gioco in prima persona, prendendosi tutti i rischi del caso. Non è semplice, infatti, evitare le cadute nel commerciale quando si chiede a dei creativi di lavorare per conto di un brand. È, però, altamente necessario per non trasformare un’operazione di cultura in una farsa.

Ci è riesce egregiamente Alcantara che festeggia a Venezia, in contemporanea con la Biennale di Architettura che apre al pubblico domani, dieci anni di collaborazione con il MAXXI di Roma. Lo fa con Studio Visit. Alcantara-MAXXI Project (alla Scuola Grande della Misericordia fino al 2 giugno) un’installazione che racconta un processo prima ancora che un contenuto: come in un gioco di scatole cinesi, infatti, è una mostra sulle mostre della serie Studio Visit realizzate negli ultimi 4 anni tra il museo romano e Alcantara.

Per Studio Visit, Dardi ha aperto gli archivi del MAXXI e chiesto a 4 autori contemporanei di interpretare il lavoro di un maestro: un’operazione all’anno per quattro anni. Un’idea semplice ma brillante: non solo perché crea connessioni e corto circuiti creativi tra passato e presente ma soprattutto perché permette di cogliere il valore aggiunto di uno sguardo progettuale – quello dei designer coinvolti – sulla storia, il suo significato e gli spunti che è possibile trarne anche oggi.

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Un gioco di rimandi, quindi, quasi di scatole cinesi. E infatti sono proprio dei grandi box le strutture che accolgono le 4 installazioni alla Scuola Grande della Misericordia: ognuna con un video che la racconta e un supporto audio. C’è l’interpretazione che Nanda Vigo ha fatto dell’architettura stellare di Paolo Soleri, lo studio su Pier Luigi Nervi e il cemento dei Formafantasma (che stilano un curioso tra l’archivio di fiches del maestro e un account instagram). C’è l’esaltazione dell’architettura fantastica degli anni 60 a opera di Konstantin Grcic, che ha studiato le opere di Sergio Musumeci, Giuseppe Perugini e Maurizio Sacripanti e di quella contemporanea di Bernard Khoury. Mentre il progetto di Neri&Hu, dedicato al tema della soglia nelle opere di Carlo Scarpa è ancora in fieri (verrà presentato al MAXXI più avanti), è raccontato come un making of.

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Il luogo è molto suggestivo, i filmati sono intriganti, le musiche perfettamente centrate per i concetti che accompagnano, i principi sono ben spiegati. Ma non è nelle singole realizzazioni che si trova il valore di questa mostra quanto nel suo aprire un dibattito sul tema della curatela e del racconto della storia. Qual è la differenza tra lo sguardo di uno storico e quello di un progettista? Cosa coglie un designer del lavoro di un altro designer rispetto a quanto vede lo studioso o l’archivista? Come lo racconta, su quali elementi mette l’accento, in che modo lo riporta al suo mondo? E ancora: quale spazio possono avere le aziende nella co-produzione di una vera ricerca culturale? Sono queste, a nostro avviso, le domande intorno alle quali ruota questo lavoro collettivo.

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“L’esperienza di Studio Visit ha cambiato il mio sguardo sull’archivio del MAXXI”, dice Domitilla Dardi. “Perché laddove il curatore – secondo la mia concezione di questo lavoro – inizia il suo lavoro partendo da un’ipotesi, mette insieme dei pezzi per sostenerla ma poi scompare dalla scena per restituire una storia al visitatore, quando chi cura è un creativo tutto cambia. In questo caso le connessioni ardite sono non solo consentite ma preziose. La ricerca e l’analisi diventano elementi di un processo che interpreta: che non vuole essere storico ma contemporaneo. È come una lettura di un testo fatto di hyperlink che, seppur nell’apparente frammentazione, alla fine regalano un’immagine nuova sul passato. Una che non sarei mai riuscita a concepire come storica del design”.

Cosa c’entra Alcantara in tutto questo? Tutto e niente. Gli autori hanno infatti creato un legame più o meno forte – talvolta fisico e reale, talvolta puramente mentale – con questo materiale che è stato immaginato e sognato prima di essere fisicamente realizzato da un ingegnere giapponese e poi prodotto in Italia.

Il legame è quindi sottile, appena suggerito. Ma è in questo saper esserci in punta di piedi, come un valore diffuso più che una presenza concreta, che sta il segreto per la riuscita di un’operazione culturale brandizzata contemporanea.