Da una delle sezioni più evocative e intelligenti della X edizione del Triennale Design Museum, un’incursione nella stanza dei Maestri, curata da Monica Guerra e Franca Zuccoli, ricercatrici del Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione dell’Università di Milano-Bicocca.

In questa intervista corale ci restituiscono uno sguardo inusuale sul progetto: dalla scuola al design, fino all’ideale del museo.

È una bella sorpresa trovare nella nuova edizione del Triennale Design Museum, intitolata “Giro Giro Tondo. Design for Children”, una sezione che si chiama Maestri, dedicata però a nomi estranei alla storia del design italiano…
La scelta di intitolare questa sezione Maestri è stata una decisione pensata e condivisa con Silvana Annicchiarico, che ha fortemente voluto la presenza di una parte pedagogica all’interno della mostra.
È stata una scommessa perché la parola “Maestri”, per chi si occupa di design, immediatamente richiama le figure illustri. Noi invece vogliamo proporre quella che apparentemente sembra un’altra storia, ma che entra potentemente in connessione con questa.
Volevamo parlare di chi la scuola la vive attualmente o l’ha praticata nel passato, ‘costruendo conoscenza’, giorno dopo giorno, con i bambini. Abbiamo scelto un taglio storico, ma non libresco, che però arrivasse fino al contemporaneo, chiarendo che quelle presentate sono solo alcune delle possibili personalità che avrebbero potuto essere in mostra e che dunque non esauriscono questa ricerca.
Abbiamo voluto raccontare figure conosciute come quella di Maria Montessori (1870-1952), accanto ad altre note più in ambito didattico e pedagogico, come quelle delle sorelle Rosa (1866-1951) e Carolina Agazzi (1870-1945), di Giuseppina Pizzigoni (1870-1947), di don Lorenzo Milani (1923-1967), di Loris Malaguzzi (1920-1994), di Alberto Manzi (1924-1997), di Ettore Guatelli (1921-2000), di Mario Lodi (1922-2014), di Gianfranco Zavalloni (1957-2012), di Franco Lorenzoni (1953), di Alex Corlazzoli (1975), insieme con differenti modalità di pensare la scuola come il Reggio Children Approach, la Rete delle Scuole Senza Zaino, l’Asilo nel Bosco: sempre senza giudizi di valore, ma proponendole per consentire una riflessione aperta.
Seppure con accenti diversi, in ognuna di queste storie ritroviamo le istanze dei nostri Maestri: credere nelle potenzialità dei bambini, nella loro sete di conoscenza, alimentata con un lavoro costante, competente e professionale da parte degli adulti; offrire occasioni di sperimentazione diretta, che prevedano sempre un passaggio di sistematizzazione e di metariflessione; predisporre spazi e ambienti educativi che stimolino la costruzione condivisa del sapere; proporre diversi strumenti e metodologie; credere nell’istituzione scuola e nei suoi valori di democrazia e di cultura partecipata; contrapporsi con passione, se necessario, all’imposizione istituzionale quando questa prende derive non condivisibili.

Un altro termine che pedagogia e design hanno in comune qui è “progetto”. Come si può ‘educare’ la progettualità, secondo voi?
Non siamo competenti nell’ambito del design in senso stretto e ci limitiamo, per questo, solo a proporre delle suggestioni, per esempio legate a un design che tiene conto del suo fruitore, che opta per una progettazione partecipata, laddove questo sia possibile.
Ci riferiamo molto anche agli edifici scolastici, dove, se sentite in modo reale le voci di studenti, docenti e genitori, le costruzioni diventano un elemento in grado di crescere e di definirsi, oltre che modellarsi, quanto più vengono utilizzate.
Questo, a nostro parere, può essere un esempio di progettualità condivisa. Con ciò confermando, allo stesso tempo, l’assoluta necessità di una ferrea preparazione e competenza nei propri campi professionali, elemento indispensabile per garantire innovazione e al contempo tenuta delle realizzazioni. Ogni progetto si può collocare, così, non come monade isolata, ma all’interno di una composizione globale che è quella di un sistema complessivo, quasi che fosse un unico elemento organico.

E, viceversa, come può riflettersi il buon design nella pedagogia?
Questa domanda si collega direttamente a quanto volevamo dire prima sui maestri, o meglio sulle maestre, perché è una storia fortemente femminile, benché molto spesso, ancora oggi, quelli che assurgono agli onori delle cronache siano ancora una volta gli uomini.
Noi assimiliamo i maestri a dei progettisti, che si propongono degli obiettivi nel loro processo professionale d’insegnamento-apprendimento e che per realizzare questo percorso, condiviso con i bambini, utilizzano cose, materiali (naturali o artificiali), strumenti.
Ecco, la storia da noi proposta racconta queste persone anche grazie agli oggetti che hanno direttamente inventato, progettato o utilizzato prendendoli dalla realtà esterna alla scuola, decontestualizzandoli, oppure ancora costruendoli direttamente insieme ai bambini o facendoli loro costruire autonomamente.
Gli oggetti, con le progettualità necessarie, sono per questo validi strumenti didattici, concretizzazione di portati culturali significativi. Per esempio le sedie in creta realizzate dai bambini di Reggio Children ci fanno capire quanta scoperta, osservazione, manipolazione ci sia prima della realizzazione e di come il prodotto poi cotto contenga tutto lo sviluppo del progetto.
È proprio il pensiero progettuale, più che il prodotto, che ci interessa. Oppure il timbro di Alberto Manzi quando si rifiutò di dare i voti, pagando personalmente questa scelta, con la scritta “Fa quel che può, quel che non può non fa”, che ci parla di un progetto educativo, oggi diremmo inclusivo, che vuole che tutti possano essere insieme senza bloccare un processo di crescita, ma al contempo lavorando anche sulla personalizzazione della proposta.

“Giro Giro Tondo. Design for Children” racconta un mondo di giochi e strumenti per i bambini. Secondo voi è anche un’esposizione ‘per bambini’? E, a questo proposito, ha senso distinguere tra mostre per adulti e per l’infanzia?
All’interno della mostra, pensando ai bambini, è stata studiata una strategia per favorire il contatto, la fruizione e la possibilità di una libera interpretazione. Fin dall’iniziale Ouverture di Stefano Giovannoni, si chiede ai bimbi di gattonare, sedersi, distendersi, assaporare l’ambientazione magica degli oggetti di design fuori scala, come se fossero dei Lillipuziani, ascoltando e immaginando storie impossibili.
Molti oggetti non possono essere toccati per l’unicità e la preziosità, ma anche questo si può comunicare ai bambini, che lo comprendono senza troppa difficoltà. Rispetto alla distinzione tra livelli di comprensioni e competenze diverse tra adulti e bambini, crediamo che esercitarsi a rendere le cose comprensibili con facilità sia un esercizio che aiuta ogni museo a mettere in gioco conoscenze, saperi e azioni pratiche.
Forse dovrebbe essere un’attività quasi obbligatoria, perché come già nel 1600 ci insegnava Jan Amos Komenský (Comenio, noto come “il padre dell’educazione moderna” ndr) è opportuno e possibile Omnes omnia docere, insegnare tutto a tutti. Insegnare o forse ancora meglio far partecipare al patrimonio culturale è un dovere della scuola, ma anche dei musei: basta scegliere come e non c’è niente di più appassionante che sperimentarsi in questa pratica.

Testo di Chiara Alessi

gallery gallery
Uno scorcio di “Giro Giro Tondo. Design for Children”, X edizione del Triennale Design Museum in programma alla Triennale di Milano fino al 18 febbraio 2018. La mostra, ideata e diretta da Silvana Annicchiarico, si avvale di più curatori, con allestimento e art direction di Stefano Giovannoni e progetto grafico di Giorgio Camuffo con Camuffo Lab. Sopra, la sezione Pinocchio, a cura di Enrico Ercole; accanto, la sezione Animazioni, a cura di Maurizio Nichetti. (foto Gianluca Di Ioia, courtesy Triennale Design Museum)
gallery gallery
Veduta della sezione Arredi, a cura di Maria Paola Maino (foto Gianluca Di Ioia, courtesy Triennale Design Museum).
gallery gallery
Maria Montessori, una dei protagonisti della sezione Maestri a cura di Monica Guerra e Franca Zuccoli.
gallery gallery
Giostra di Ettore Guatelli, maestro, etnografo, collezionista e visionario.
gallery gallery
Il pedagogista, scrittore e personaggio televisivo Alberto Manzi con i suoi scolari.
gallery gallery
Il giardino di una struttura scolastica ispirata al metodo di Giuseppina Pizzigoni.
gallery gallery
L’Asilo nel Bosco creato da Paolo Mai nella campagna di Ostia Antica.
gallery gallery
La costruzione dell’Acchiappasole a un campo scuola presso la casa-laboratorio del maestro Franco Lorenzoni, a Cenci (Terni).
gallery gallery
La stampa del giornalino “Il Mondo” nella scuola di Vho di Piadena, Cremona (courtesy famiglia Lodi).
gallery gallery
Da una delle sezioni più evocative e intelligenti della X edizione del Triennale Design Museum, un’incursione nella stanza dei Maestri, curata da Monica Guerra e Franca Zuccoli, ricercatrici del Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione dell’Università di Milano-Bicocca. In questa intervista corale ci restituiscono uno sguardo inusuale sul progetto: dalla scuola al design, fino all’ideale del museo. È una bella sorpresa trovare nella nuova edizione del Triennale Design Museum, intitolata “Giro Giro Tondo. Design for Children”, una sezione che si chiama Maestri, dedicata però a nomi estranei alla storia del design italiano... La scelta di intitolare questa sezione Maestri è stata una decisione pensata e condivisa con Silvana Annicchiarico, che ha fortemente voluto la presenza di una parte pedagogica all’interno della mostra. È stata una scommessa perché la parola “Maestri”, per chi si occupa di design, immediatamente richiama le figure illustri. Noi invece vogliamo proporre quella che apparentemente sembra un’altra storia, ma che entra potentemente in connessione con questa. Volevamo parlare di chi la scuola la vive attualmente o l’ha praticata nel passato, ‘costruendo conoscenza’, giorno dopo giorno, con i bambini. Abbiamo scelto un taglio storico, ma non libresco, che però arrivasse fino al contemporaneo, chiarendo che quelle presentate sono solo alcune delle possibili personalità che avrebbero potuto essere in mostra e che dunque non esauriscono questa ricerca. Abbiamo voluto raccontare figure conosciute come quella di Maria Montessori (1870-1952), accanto ad altre note più in ambito didattico e pedagogico, come quelle delle sorelle Rosa (1866-1951) e Carolina Agazzi (1870-1945), di Giuseppina Pizzigoni (1870-1947), di don Lorenzo Milani (1923-1967), di Loris Malaguzzi (1920-1994), di Alberto Manzi (1924-1997), di Ettore Guatelli (1921-2000), di Mario Lodi (1922-2014), di Gianfranco Zavalloni (1957-2012), di Franco Lorenzoni (1953), di Alex Corlazzoli (1975), insieme con differenti modalità di pensare la scuola come il Reggio Children Approach, la Rete delle Scuole Senza Zaino, l’Asilo nel Bosco: sempre senza giudizi di valore, ma proponendole per consentire una riflessione aperta. Seppure con accenti diversi, in ognuna di queste storie ritroviamo le istanze dei nostri Maestri: credere nelle potenzialità dei bambini, nella loro sete di conoscenza, alimentata con un lavoro costante, competente e professionale da parte degli adulti; offrire occasioni di sperimentazione diretta, che prevedano sempre un passaggio di sistematizzazione e di metariflessione; predisporre spazi e ambienti educativi che stimolino la costruzione condivisa del sapere; proporre diversi strumenti e metodologie; credere nell’istituzione scuola e nei suoi valori di democrazia e di cultura partecipata; contrapporsi con passione, se necessario, all’imposizione istituzionale quando questa prende derive non condivisibili. Un altro termine che pedagogia e design hanno in comune qui è “progetto”. Come si può ‘educare’ la progettualità, secondo voi? Non siamo competenti nell’ambito del design in senso stretto e ci limitiamo, per questo, solo a proporre delle suggestioni, per esempio legate a un design che tiene conto del suo fruitore, che opta per una progettazione partecipata, laddove questo sia possibile. Ci riferiamo molto anche agli edifici scolastici, dove, se sentite in modo reale le voci di studenti, docenti e genitori, le costruzioni diventano un elemento in grado di crescere e di definirsi, oltre che modellarsi, quanto più vengono utilizzate. Questo, a nostro parere, può essere un esempio di progettualità condivisa. Con ciò confermando, allo stesso tempo, l’assoluta necessità di una ferrea preparazione e competenza nei propri campi professionali, elemento indispensabile per garantire innovazione e al contempo tenuta delle realizzazioni. Ogni progetto si può collocare, così, non come monade isolata, ma all’interno di una composizione globale che è quella di un sistema complessivo, quasi che fosse un unico elemento organico. E, viceversa, come può riflettersi il buon design nella pedagogia? Questa domanda si collega direttamente a quanto volevamo dire prima sui maestri, o meglio sulle maestre, perché è una storia fortemente femminile, benché molto spesso, ancora oggi, quelli che assurgono agli onori delle cronache siano ancora una volta gli uomini. Noi assimiliamo i maestri a dei progettisti, che si propongono degli obiettivi nel loro processo professionale d’insegnamento-apprendimento e che per realizzare questo percorso, condiviso con i bambini, utilizzano cose, materiali (naturali o artificiali), strumenti. Ecco, la storia da noi proposta racconta queste persone anche grazie agli oggetti che hanno direttamente inventato, progettato o utilizzato prendendoli dalla realtà esterna alla scuola, decontestualizzandoli, oppure ancora costruendoli direttamente insieme ai bambini o facendoli loro costruire autonomamente. Gli oggetti, con le progettualità necessarie, sono per questo validi strumenti didattici, concretizzazione di portati culturali significativi. Per esempio le sedie in creta realizzate dai bambini di Reggio Children ci fanno capire quanta scoperta, osservazione, manipolazione ci sia prima della realizzazione e di come il prodotto poi cotto contenga tutto lo sviluppo del progetto. È proprio il pensiero progettuale, più che il prodotto, che ci interessa. Oppure il timbro di Alberto Manzi quando si rifiutò di dare i voti, pagando personalmente questa scelta, con la scritta “Fa quel che può, quel che non può non fa”, che ci parla di un progetto educativo, oggi diremmo inclusivo, che vuole che tutti possano essere insieme senza bloccare un processo di crescita, ma al contempo lavorando anche sulla personalizzazione della proposta. “Giro Giro Tondo. Design for Children” racconta un mondo di giochi e strumenti per i bambini. Secondo voi è anche un’esposizione ‘per bambini’? E, a questo proposito, ha senso distinguere tra mostre per adulti e per l’infanzia? All’interno della mostra, pensando ai bambini, è stata studiata una strategia per favorire il contatto, la fruizione e la possibilità di una libera interpretazione. Fin dall’iniziale Ouverture di Stefano Giovannoni, si chiede ai bimbi di gattonare, sedersi, distendersi, assaporare l’ambientazione magica degli oggetti di design fuori scala, come se fossero dei Lillipuziani, ascoltando e immaginando storie impossibili. Molti oggetti non possono essere toccati per l’unicità e la preziosità, ma anche questo si può comunicare ai bambini, che lo comprendono senza troppa difficoltà. Rispetto alla distinzione tra livelli di comprensioni e competenze diverse tra adulti e bambini, crediamo che esercitarsi a rendere le cose comprensibili con facilità sia un esercizio che aiuta ogni museo a mettere in gioco conoscenze, saperi e azioni pratiche. Forse dovrebbe essere un’attività quasi obbligatoria, perché come già nel 1600 ci insegnava Jan Amos Komenský (Comenio, noto come “il padre dell’educazione moderna” ndr) è opportuno e possibile Omnes omnia docere, insegnare tutto a tutti. Insegnare o forse ancora meglio far partecipare al patrimonio culturale è un dovere della scuola, ma anche dei musei: basta scegliere come e non c’è niente di più appassionante che sperimentarsi in questa pratica. Testo di Chiara Alessi
gallery gallery
Uno scorcio di “Giro Giro Tondo. Design for Children”, X edizione del Triennale Design Museum in programma alla Triennale di Milano fino al 18 febbraio 2018. La mostra, ideata e diretta da Silvana Annicchiarico, si avvale di più curatori, con allestimento e art direction di Stefano Giovannoni e progetto grafico di Giorgio Camuffo con Camuffo Lab. Sopra, la sezione Pinocchio, a cura di Enrico Ercole; accanto, la sezione Animazioni, a cura di Maurizio Nichetti. (foto Gianluca Di Ioia, courtesy Triennale Design Museum)
gallery gallery
Veduta della sezione Arredi, a cura di Maria Paola Maino (foto Gianluca Di Ioia, courtesy Triennale Design Museum).
gallery gallery
Maria Montessori, una dei protagonisti della sezione Maestri a cura di Monica Guerra e Franca Zuccoli.
gallery gallery
Giostra di Ettore Guatelli, maestro, etnografo, collezionista e visionario.
gallery gallery
Il pedagogista, scrittore e personaggio televisivo Alberto Manzi con i suoi scolari.
gallery gallery
Il giardino di una struttura scolastica ispirata al metodo di Giuseppina Pizzigoni.
gallery gallery
L’Asilo nel Bosco creato da Paolo Mai nella campagna di Ostia Antica.
gallery gallery
La costruzione dell’Acchiappasole a un campo scuola presso la casa-laboratorio del maestro Franco Lorenzoni, a Cenci (Terni).
gallery gallery
La stampa del giornalino “Il Mondo” nella scuola di Vho di Piadena, Cremona (courtesy famiglia Lodi).
gallery gallery
Da una delle sezioni più evocative e intelligenti della X edizione del Triennale Design Museum, un’incursione nella stanza dei Maestri, curata da Monica Guerra e Franca Zuccoli, ricercatrici del Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione dell’Università di Milano-Bicocca. In questa intervista corale ci restituiscono uno sguardo inusuale sul progetto: dalla scuola al design, fino all’ideale del museo. È una bella sorpresa trovare nella nuova edizione del Triennale Design Museum, intitolata “Giro Giro Tondo. Design for Children”, una sezione che si chiama Maestri, dedicata però a nomi estranei alla storia del design italiano... La scelta di intitolare questa sezione Maestri è stata una decisione pensata e condivisa con Silvana Annicchiarico, che ha fortemente voluto la presenza di una parte pedagogica all’interno della mostra. È stata una scommessa perché la parola “Maestri”, per chi si occupa di design, immediatamente richiama le figure illustri. Noi invece vogliamo proporre quella che apparentemente sembra un’altra storia, ma che entra potentemente in connessione con questa. Volevamo parlare di chi la scuola la vive attualmente o l’ha praticata nel passato, ‘costruendo conoscenza’, giorno dopo giorno, con i bambini. Abbiamo scelto un taglio storico, ma non libresco, che però arrivasse fino al contemporaneo, chiarendo che quelle presentate sono solo alcune delle possibili personalità che avrebbero potuto essere in mostra e che dunque non esauriscono questa ricerca. Abbiamo voluto raccontare figure conosciute come quella di Maria Montessori (1870-1952), accanto ad altre note più in ambito didattico e pedagogico, come quelle delle sorelle Rosa (1866-1951) e Carolina Agazzi (1870-1945), di Giuseppina Pizzigoni (1870-1947), di don Lorenzo Milani (1923-1967), di Loris Malaguzzi (1920-1994), di Alberto Manzi (1924-1997), di Ettore Guatelli (1921-2000), di Mario Lodi (1922-2014), di Gianfranco Zavalloni (1957-2012), di Franco Lorenzoni (1953), di Alex Corlazzoli (1975), insieme con differenti modalità di pensare la scuola come il Reggio Children Approach, la Rete delle Scuole Senza Zaino, l’Asilo nel Bosco: sempre senza giudizi di valore, ma proponendole per consentire una riflessione aperta. Seppure con accenti diversi, in ognuna di queste storie ritroviamo le istanze dei nostri Maestri: credere nelle potenzialità dei bambini, nella loro sete di conoscenza, alimentata con un lavoro costante, competente e professionale da parte degli adulti; offrire occasioni di sperimentazione diretta, che prevedano sempre un passaggio di sistematizzazione e di metariflessione; predisporre spazi e ambienti educativi che stimolino la costruzione condivisa del sapere; proporre diversi strumenti e metodologie; credere nell’istituzione scuola e nei suoi valori di democrazia e di cultura partecipata; contrapporsi con passione, se necessario, all’imposizione istituzionale quando questa prende derive non condivisibili. Un altro termine che pedagogia e design hanno in comune qui è “progetto”. Come si può ‘educare’ la progettualità, secondo voi? Non siamo competenti nell’ambito del design in senso stretto e ci limitiamo, per questo, solo a proporre delle suggestioni, per esempio legate a un design che tiene conto del suo fruitore, che opta per una progettazione partecipata, laddove questo sia possibile. Ci riferiamo molto anche agli edifici scolastici, dove, se sentite in modo reale le voci di studenti, docenti e genitori, le costruzioni diventano un elemento in grado di crescere e di definirsi, oltre che modellarsi, quanto più vengono utilizzate. Questo, a nostro parere, può essere un esempio di progettualità condivisa. Con ciò confermando, allo stesso tempo, l’assoluta necessità di una ferrea preparazione e competenza nei propri campi professionali, elemento indispensabile per garantire innovazione e al contempo tenuta delle realizzazioni. Ogni progetto si può collocare, così, non come monade isolata, ma all’interno di una composizione globale che è quella di un sistema complessivo, quasi che fosse un unico elemento organico. E, viceversa, come può riflettersi il buon design nella pedagogia? Questa domanda si collega direttamente a quanto volevamo dire prima sui maestri, o meglio sulle maestre, perché è una storia fortemente femminile, benché molto spesso, ancora oggi, quelli che assurgono agli onori delle cronache siano ancora una volta gli uomini. Noi assimiliamo i maestri a dei progettisti, che si propongono degli obiettivi nel loro processo professionale d’insegnamento-apprendimento e che per realizzare questo percorso, condiviso con i bambini, utilizzano cose, materiali (naturali o artificiali), strumenti. Ecco, la storia da noi proposta racconta queste persone anche grazie agli oggetti che hanno direttamente inventato, progettato o utilizzato prendendoli dalla realtà esterna alla scuola, decontestualizzandoli, oppure ancora costruendoli direttamente insieme ai bambini o facendoli loro costruire autonomamente. Gli oggetti, con le progettualità necessarie, sono per questo validi strumenti didattici, concretizzazione di portati culturali significativi. Per esempio le sedie in creta realizzate dai bambini di Reggio Children ci fanno capire quanta scoperta, osservazione, manipolazione ci sia prima della realizzazione e di come il prodotto poi cotto contenga tutto lo sviluppo del progetto. È proprio il pensiero progettuale, più che il prodotto, che ci interessa. Oppure il timbro di Alberto Manzi quando si rifiutò di dare i voti, pagando personalmente questa scelta, con la scritta “Fa quel che può, quel che non può non fa”, che ci parla di un progetto educativo, oggi diremmo inclusivo, che vuole che tutti possano essere insieme senza bloccare un processo di crescita, ma al contempo lavorando anche sulla personalizzazione della proposta. “Giro Giro Tondo. Design for Children” racconta un mondo di giochi e strumenti per i bambini. Secondo voi è anche un’esposizione ‘per bambini’? E, a questo proposito, ha senso distinguere tra mostre per adulti e per l’infanzia? All’interno della mostra, pensando ai bambini, è stata studiata una strategia per favorire il contatto, la fruizione e la possibilità di una libera interpretazione. Fin dall’iniziale Ouverture di Stefano Giovannoni, si chiede ai bimbi di gattonare, sedersi, distendersi, assaporare l’ambientazione magica degli oggetti di design fuori scala, come se fossero dei Lillipuziani, ascoltando e immaginando storie impossibili. Molti oggetti non possono essere toccati per l’unicità e la preziosità, ma anche questo si può comunicare ai bambini, che lo comprendono senza troppa difficoltà. Rispetto alla distinzione tra livelli di comprensioni e competenze diverse tra adulti e bambini, crediamo che esercitarsi a rendere le cose comprensibili con facilità sia un esercizio che aiuta ogni museo a mettere in gioco conoscenze, saperi e azioni pratiche. Forse dovrebbe essere un’attività quasi obbligatoria, perché come già nel 1600 ci insegnava Jan Amos Komenský (Comenio, noto come “il padre dell’educazione moderna” ndr) è opportuno e possibile Omnes omnia docere, insegnare tutto a tutti. Insegnare o forse ancora meglio far partecipare al patrimonio culturale è un dovere della scuola, ma anche dei musei: basta scegliere come e non c’è niente di più appassionante che sperimentarsi in questa pratica. Testo di Chiara Alessi [gallery ids="154112,154114,154116,154118,154120,154122,154124,154126,154128,15130"]
"}];