Ha ancora senso parlare di un modo autoctono di fare design? Rispondono alcuni tra i più brillanti progettisti del nostro Paese che hanno scelto di lavorare all'estero. Ma fanno del 'lateral thinking' nostrano un punto di forza del loro lavoro

Che l’Italia sia stata e resti ancora oggi una delle patrie del design è un fatto. Gli studiosi della disciplina di tutto il mondo si sono concentrati per anni sul concetto di made in Italy e sul modello di design ricollegabile alla sua condizione produttiva unica, a una spiccata attitudine ad assumere i riferimenti delle arti visive come ingrediente progettuale e a un funzionalismo mitigato da spirito di leggerezza.

Ma si può ancora parlare di primato qualitativo o di 'italianità' del prodotto, oggi che le mappe del design si sono drasticamente modificate col consolidamento della globalizzazione e della post-industrializzazione?

Con questi interrogativi ci siamo rivolti ad alcuni tra i più brillanti progettisti italiani all’anagrafe, ma residenti altrove. E le loro risposte sono state spesso coincidenti. Ma, prima di analizzarle, va considerato il motivo cha ha spinto tanti di loro ad aprirsi a frontiere sempre più evanescenti, ben sapendo che il fenomeno non è esattamente una novità (basti pensare a Elsa Schiaparelli e Flaminio Bertoni negli anni ’20 e '30 a Parigi, o in seguito a Massimo Vignelli e Gaetano Pesce a New York).

Oggi, però, a motivare la scelta di espatrio non è il solo desiderio di vivere in una capitale culturale. I due principali attrattori sono da un lato le scuole internazionali – dove completare una formazione già avviata in Italia – e dall’altro ragioni più pragmatiche, quelle fiscali e amministrative in primis.

Alla ricerca di una scuola diversa, capace di spingere con più determinazione sul versante della speculazione, si sono mossi per esempio i Formafantasma, Giovanni Innella, Maurizio Montalti e Gionata Gatto, tutti approdati alla Design Academy di Eindhoven; ma anche Martino Gamper, che aveva scelto le Belle Arti a Vienna prima di trapiantarsi a Londra.

In realtà il numero di giovani talenti migrati verso un’altra formazione è molto più ampio, ma i succitati hanno poi tutti scelto di restare all’estero, invogliati da una condizione sociale che riconosce il loro status di progettisti professionisti con modalità a oggi completamente sconosciute per chiunque voglia esercitare il mestiere in Italia.

Sul piano formale, rintracciare l’italianità nel loro lavoro sembra un gioco anacronistico o desueto. Alcuni, infatti, propongono un prodotto spiccatamente internazionale e indefinito, o, addirittura, mimetizzato sulla richiesta del mercato globale.

Quest’ultimo è il caso, per esempio, del marchio Tokidoki, una realtà commerciale mondiale, all’apparenza riconducibile a una provenienza orientale, mentre in realtà è frutto della mente di Simone Legno, diplomato allo IED Roma, che si è nutrito di grafica giapponese e l’ha innestata di cultura punk, generando un prodotto venduto in tutto il mondo con picchi di gradimento proprio in Corea e Giappone.

Al tempo stesso, se l’Italia è presente nei progetti dei designer di questa generazione espatriata, è per scelta e pertinenza del singolo caso, non certo per uniformità a un italian mood che può divenire un pericoloso cliché.

“Pensiamo che nazionalizzare a livello critico una disciplina”, puntualizzano i Formafantasma dall’Olanda, “sia rischioso se non dannoso. I confini nazionali rischiano di diventare confini mentali profondi che inconsapevolmente limitano la libertà intellettuale dei designer”.

Ma allora cosa rimane della formazione italiana nel modo di progettare di chi sceglie comunità più accoglienti? Molti convergono nel riconoscere alle scuole italiane un mix straordinario tra solidità accademica, soprattutto nella cultura storico-progettuale, e capacità di sopravvivenza all’assurdo di un Paese che ti abitua a confrontarti con l’imprevisto affinando capacità critiche e risolutive.

“Ho imparato a leggere il design come testimone della cultura che lo produce”, spiega Giovanni Innella dal Giappone. “Alchimia e Memphis ci hanno lasciato in eredità la consapevolezza di un design critico rispetto a se stesso. Credo che l’elemento auto-critico sia ancora peculiare del design italiano. A mio avviso, oggi questa qualità potrebbe essere utilizzata con maggiore incisività”.

Anche Francesco Pellisari specifica che questa attitudine, per noi innata, corrisponde a quello che gli anglosassoni chiamano 'lateral thinking', descrivendo la cosiddetta 'mossa del cavallo', capacità di scartare verso una direzione che non è né lineare, né diagonale, ma di pura invenzione. Un pensiero laterale che però non riesce a ovviare ai problemi di una “totale assenza dello Stato per i progettisti-imprenditori”, spiega sempre Pellisari, che da qualche anno ha trasferito la sua Nacsound a Cambridge, pur continuando a utilizzare per le sue casse acustiche componenti italiani realizzati tra la provincia di Roma e il Triveneto, “perché in questo settore siamo gli indiscutibili numeri uno al mondo”.

Ma si può ancora parlare di primato qualitativo o di 'italianità' del prodotto, oggi che le mappe del design si sono drasticamente modificate col consolidamento della globalizzazione e della post-industrializzazione?"

Resiste, allora, il primato italiano della produzione di alta qualità? Per certi versi senz’altro. “La cosa che fa la differenza in Italia rispetto al resto del mondo”, racconta Luca Nichetto dalla sua base di Stoccolma, “è il territorio e il saper fare; la dimensione del distretto è unica. In Italia veramente impari tanto dai tecnici in azienda”.

Anche Enrico Fratesi, che ha scelto la sua base a Copenaghen con Stine Gam, rileva nella passione e accuratezza tecnico-produttiva italiana una condizione che si sta riconquistando un ruolo a livello internazionale: “Circa 10/12 anni fa, i brand nord-europei con i quali collaboriamo hanno iniziato a trasferire la loro produzione in Cina per motivi meramente economici. Oggi, al contrario, la tendenza è quella di tornare a rivolgersi all’Italia, che ha costi certamente superiori a quelli cinesi, ma con una resa e un servizio che non hanno paragoni”.

Tuttavia, il discorso diventa diverso se riferito alle tipologie di prodotto, perché in Italia design rima ancora quasi sempre con arredo e oggetti. Gionata Gatto, che fa ricerca in Olanda su temi più speculativi, infatti, chiosa dicendo: “L’Italia rimane ancorata a quello che di buono il design ha prodotto negli anni d’oro. Abbiamo iniziato da poco a discutere di questioni cruciali che altrove sono dibattute da anni: la co-progettazione, l’antropocene, il territorio, la partecipazione sociale”.

Di certo il superamento di un modello vincente nel passato resta una meta sfidante più per i nostri imprenditori che per questi designer con la valigia sempre pronta.