Internet è destinato a sparire. L’aumento delle proprietà connettive non solo dei device ma di ogni tipo di prodotto e complemento d’arredo avrà infatti come sbocco finale la coincidenza totale fra sistema telematico e sistema degli oggetti, al punto che non avrà più senso parlare delle rete come di qualcosa separato dalla realtà.

Ciò comporterà la fusione – dapprima lenta, poi sempre più intima – tra il livello d’interfaccia, proprio dei terminali elettronici, e la pelle formale dell’oggetto, proprio della cultura del progetto, così che i fenomeni d’interfaccia non interesseranno più solo, come avviene oggi, gli occhi e le dita, ma l’intero spettro sensoriale umano, dal naso ai capelli fino alla sensibilità termica e cromatica.

In questo senso, l’interfaccia sarà ‘estetica’ nell’accezione etimologica del termine, come aìsthesis quale esperienza sensoriale completa e pervasiva. Ogni finitura estetica dell’oggetto sarà cioè parte di una grande, articolata interfaccia oggettuale, a cominciare dai valori profondi della superficie ripensati a partire dal discorso interrotto del ‘design primario’.

Già a partire dagli anni Cinquanta, in verità, Ettore Sottsass criticava l’approccio riduzionista alla gestione del colore ereditato dal movimento moderno, il quale, concependo l’oggetto come organizzazione strutturale, considerava la questione cromatica marginale e secondaria – il che è comprensibile, se si pensa che la struttura fisica è la dimensione che meglio si presta alla gestione razionale del prodotto.

La percezione del colore sfugge invece al controllo esercitato dal segno, ed era proprio questa capacità della temperatura cromatica di diffondersi per via subliminale, quasi subdola, a interessare Sottsass, sulla cui scia sorse negli anni Settanta il Centro Design Montefibre guidato da Massimo Morozzi, Andrea Branzi e Clino Trini Castelli.

Ponendo al centro dell’attenzione tutto quel complesso di fattori ‘di superficie’ che, agendo a livello percettivo, offrivano un’alternativa potente all’ascetismo cromofobico razionalista, il Centro ha promosso la nascita del vero e proprio design primario, così detto perché riferito a quel livello che, dal punto di vista fenomenologico, si dà per primo, definendo in maniera lenta e profonda, osmotica e sostanziale, l’esperienza dell’utente.

È, dunque, riprendendo questa tradizione, e quindi l’inversione gerarchica tra i valori hard della struttura e quelli soft delle sensazioni percettive, che il design può affrontare oggi il compito storico a cui è chiamato nel ventunesimo secolo, consistente nella messa a punto di una nuova definizione qualitativa dell’oggetto che tenga conto della funzione di interfaccia svolta dall’involucro formale nella sua interezza.

È, cioè, compito del progetto ripensare ogni dettaglio estetico del prodotto – dal gradiente cromatico alla filigrana testurale, dalla sfumatura termica all’aura olfattiva – in termini di interfaccia, superando lo schermo come spazio circoscritto di sensibilità dell’oggetto in favore di una sua estensione all’intera superficie materiale delle cose.

Nell’aprirsi a questo nuovo rapporto poroso con l’utente, il design delle superfici potrà utilmente attingere, oltre che alla cultura del progetto, alla grande esperienza artistica del Novecento, che ha da tempo ritratto lo sguardo delle profondità dell’immagine per soffermarsi sull’impenetrabilità metafisica del piano bidimensionale, ora esponendosi al tremolio giganteggiante di un Rothko, ora lasciando traspirare la filigrana materica di un Burri.

Tanto più importante sarà questo genere di portato artistico per il design, quanto più sarà proprio sulla superficie delle cose di tutti i giorni che si consumerà il passaggio dall’oggetto animista, reso vivo dagli spiriti misterici che lo abitavano, all’oggetto animato, ‘acceso’ dalle connessioni di rete che lo innervano.

Compito del design attribuire dignità sensoriale a questi oggetti senza volto e dal corpo interamente sensibile, favorendo il rilascio estetico dell’informazione attraverso l’esposizione dolce dell’utente all’oggetto e dell’oggetto all’utente.

Testo di Stefano Caggiano

gallery gallery
La superficie in quarzo ricomposto Dune, disegnata da Lorenzo Palmeri per Stone Italiana, rappresenta un nuovo capitolo della ricerca Micro 3D, ideata dallo stesso Palmeri per indagare le potenzialità volumetriche, ‘optiche’ e ‘aptiche’, della lastra, superficie per definizione piatta, arricchita qui da una texture finemente tridimensionale. Foto: Max Rommel.
gallery gallery
Sabbia e cemento sono i materiali usati da Fernando Mastrangelo, design artist che vive e lavora a Brooklyn, per i suoi elementi d’arredo fortemente materici, come nella serie di specchi Drift, in cui grumi di sabbia solida tinta a mano, che inghiottiscono la luce fino ad assorbirla del tutto, si trovano giustapposti alle superfici riflettenti che restituiscono la luce nella sua interezza. Foto: Fernando Mastrangelo Studio.
gallery gallery
Nick Theobald, “A dream – A cell with a view”, 2014, cera d’api su pannello di legno e acciaio. La non-immagine rappresa nel quadro appare come un ossimoro visivo in cui la bidimensionalità grafica dei visual digitali si fonde con la tangibilità astratta della pittura materica, raccontando un mondo in cui le immagini assumono consistenza tattile. Foto: Galleri Jacob Bjørn.