La cultura del design sta entrando oggi nella quarta era della sua evoluzione: quella del progetto post-sensoriale. Che, alla forma e alla funzione, aggiunge la qualità digitale

Il design non è un gioco a somma zero. Soprattutto nel caso dell’arredo, la qualificazione dell’esperienza estetica quotidiana non deriva dal progetto inteso come attività di problem solving quanto piuttosto come sforzo creativo, pragmatico e visionario, di trascendere l’opacità della materia attraverso il senso disegnato della forma. Non per colmare un gap funzionale, ma per alimentare il bisogno, umano e culturale, di salvare la contingenza, in cui solamente è dato esistere, dall’abbrutimento a cui sarebbe altrimenti votata.

In questo suo lavoro di contrasto alla naturale entropia delle cose il progetto ha attraversato vari momenti, transitando dall’uno all’altro in modi ora bruschi, ora più graduali. Dopo un primo periodo proto-industriale, contraddistinto dall’impronta dell’artigianato artistico sul prodotto fatto a macchina, il secondo periodo ha visto lo sviluppo del paradigma moderno, in cui è stata messa a punto una definizione formale più astratta, meno figurativa, del prodotto industriale.

La terza fase, postmoderna, ha revocato in dubbio il primato del rigore geometrico, a seguito degli orrori ‘razionalisti’ delle guerre mondiali e della crisi energica causata dal patto d’acciaio tra mercato e produzione industriale, recuperando per reazione quel repertorio di valori emozionali, artistici e, infine, narrativi che il modernismo aveva escluso dal suo percorso storico.

Oggi il progetto si accinge a entrare nella quarta fase della sua evoluzione, andando oltre la consistenza simbolico-narrativa postmoderna per assumere una nuova consistenza mista solido-gassosa definita dall’infiltrazione delle qualità digitali, immateriali come la magia, nel corpo fisico dell’oggetto, rimescolato e rimesso in discussione nella sua natura più fondamentale.

Non solo l’estetica, infatti, anche la funzione ha oggi iniziato un processo di transizione verso uno stadio incorporeo, facendosi ‘narrativa’ come la forma. Mentre l’identità dell’oggetto si diffrange in una nuvola di sembianti e profili d’uso che, come un fascio di particelle quantistiche, si trova in più luoghi contemporaneamente (qui e in remoto) senza essere esattamente in nessuno di essi (il prodotto non come ‘cosa’, ma come fascio esperienziale).

Quell’‘emanazione estetica’, che l’oggetto emozionale aveva imparato a emettere come metafora poetica, sta cioè assumendo oggi una connotazione letterale, reificata sotto forma di qualità digitale immateriale, ma effettiva, che satura, senza affollarla, la dimensione domestica, condizione non più solo mobile ed esportabile (come diceva Andrea Branzi ne “La casa calda”), ma personalizzabile (come una playlist), tascabile (come uno smartphone), ‘di campo’ (come una copertura wireless).

Certamente, il trapasso del progetto dal paradigma sensoriale a quello post-sensoriale – la transizione dal design diadico, definito da forma e funzione, al design triadico, definito da forma, funzione e qualità digitale – è appena cominciato, e la questione dell’esito a cui potrà condurre è ancora del tutto aperta.

 

Quello che però appare già evidente è come l’attuale fase metastabile stia plasmando il design secondo due grandi attrattori culturali, quello del passato solido da un lato e quello del futuro immateriale dall’altro, che lo ‘stirano’ in direzioni opposte.

Lo si vede bene nei vasi Cube disegnati da Gabriella Asztalos per Fendi Casa, in cui bolle di ispirazione organico-equorea (elemento biologico organolettico) sono incassate su un teorema vistosamente razionale (elemento strutturale artificiale), in modo da farne risaltare la giustapposizione.

Proprio questo è infatti il punto: non quale delle due polarità sia prevalente, ma come nella loro contrapposizione si fronteggino il fronte della sublimazione digitale dell’oggetto e quello della resistenza inerziale delle sue radici antropologiche, un tiro alla fune culturale ben rappresentato dal sistema d’arredo con cui Gustavo Martini ha vinto il Wallpaper* Design Award 2018.

The Grove (questo il nome del progetto del giovane talento brasiliano, che ha studiato e lavora in Italia) presenta una composizione sdoppiata su due livelli, in cui quello inferiore accoglie l’afflato moderno e cartesiano dello slancio verso il futuro, mentre quello superiore si fa carico del portato rugoso del passato pre-industriale della cultura umana.

Da sottolineare, anche, come il posizionamento delle due fasi, con quella più pesante in alto e quello più leggera in basso, rispecchi lo stato metastabile in cui si trova oggi il design, aggettante verso un nuovo futuro ma ancora sensibile al richiamo imperioso dell’origine.

Ci sono poi oggetti, come le lampade Spigolo per Nemo e Terra-Cielo per De Padova, entrambe disegnate da Studiocharlie, la cui chiave di lettura si colloca su un livello ancora più sofisticato; in esse una delle due polarità, quella del razionalismo di sintesi, evoca, senza bisogno di mostrarla, la sua opposta del misticismo ancestrale, innescando un meccanismo semiotico di grande raffinatezza in cui il segno vettoriale di ordine geometrico viene spinto a un tale livello di purezza da far risuonare il silenzio soprannaturale delle cose.

E proprio qui, forse, più ancora che nei progetti a contrapposizione esplicita, diventa chiaro come l’evoluzione dell’estetica dallo stadio metaforico allo stadio letterale – da qualità simbolica a qualità digitale – comporti un processo di ‘secolarizzazione’ dell’oggetto in cui gli antichi superpoteri narrativi vengono sostituiti dai nuovi superpoteri wireless.