Progetto di Studio Fuksas / Massimiliano & Doriana Fuksas
Foto di Leonardo Finotti
Studio Fuksas
Testo Matteo Vercelloni

Verso la metà degli anni 90 Deng Xiaoping, leader del partito comunista cinese e pioniere della riforma economica che ha portato la Cina allo sviluppo odierno, segnò un cerchio ideale attorno a un luogo lungo la costa meridionale, il delta del Fiume delle Perle, un luogo conosciuto con il nome di Shenzhen.

Prima“Zona Economica Speciale” con l’obiettivo primario di diventare un’area manifatturiera per l’esportazione, Shenzhen si trasformò negli anni successivi in una sorta di “terra di mezzo” tra Hong Kong e il continente, acquistando il ruolo simbolico di “porta” della Cina per l’ingresso dei capitali stranieri e delle iniziative imprenditoriali provenienti da tutto il mondo.   La crescita del Paese con la transizione da un’economia pianificata a un’economia di mercato, secondo l’anomalia del modello di un capitalismo con caratteristiche cinesi, si ritrova nella pianificazione urbana dell’area di Shenzhen. 20 anni fa la città aveva una popolazione di circa 30 mila abitanti con una superficie edificata di circa 3 chilometri quadrati; oggi gli abitanti si avvicinano ai 9 milioni e la superficie urbana raggiunge i 79 chilometri di estensione. Una crescita esponenziale di difficili paragoni che ha conosciuto uno sviluppo edilizio a macchia d’olio senza una regia di pianificazione, nell’assenza di un disegno urbano complessivo.   Anche il nuovo Terminal 3 progettato da Massimiliano e Doriana Fuksas tende a raggiungere fattori da primato: è il più grande edificio pubblico di Shenzhen esteso sotto una copertura scultorea per circa mezzo milione di metri quadrati, conta 63 gates d’imbarco e si allinea a soddisfare la domanda di transito di  45 milioni di passeggeri all’anno. Un’architettura a scala territoriale, lunga circa un chilometro e mezzo, che si pone anche come un segno inequivocabile di riferimento e allo stesso tempo di ordine, raffigurato dall’impianto a croce che più che un aeroplano vuole ricordare, come afferma lo stesso Fuksas “una manta, una razza che respira, cambia forma, ha una sua dolcezza, si piega, subisce variazioni, prende luce, rimanda luce, la fa filtrare nell’interno”.   In effetti, il progetto (vincitore in un concorso internazionale con partecipanti del calibro di Foster Associates, Kisho Kurokawa, GMP International, Foreign Office Architects solo per ricordarne alcuni) con la sua doppia pelle bianca che forma, scolpisce e sviluppa l’involucro complessivo, sembra accogliere i visitatori in uno spazio zoomorfo, che, come il ventre del grande pesce che inghiottì il profeta Giona, funge da filtro tra il viaggio e l’arrivo nel nuovo mondo. Ci si sente protetti sotto la grande volta ad andamento variabile, scolpita da segni esagonali che filtrano la luce dall’alto creando un gioco di riflessi sul pavimento lucido. Mentre si coglie con un solo sguardo la vastità dello spazio, la lunga prospettiva del percorso rettilineo, la figura della strada coperta che nelle sue parti conclusive si apre con grandi vetrate sulla pista di atterraggio per svilupparsi su tre livelli nel punto d’intersezione centrale, tra i due corpi di riferimento ortogonali.   L’aeroporto sottolinea il ruolo di porta per la città del nuovo millennio – luogo simbolico oltre che funzionale – che questo progetto restituisce in modo completo alla scala di una convincente Landarchitecture. Come afferma Fuksas: “L’aeroporto è la città di oggi […] è una struttura lineare, un lungo percorso, una passerella. Oggi gli aeroporti devono essere macrostruttura che ridà qualità alla vita della gente. I nostri committenti cinesi ci hanno chiesto: fate un aeroporto, fatelo pensando alla vita della gente che ci sta dentro, un posto dove si possa stare bene anche se l’aereo è in ritardo”.   E’ questo il mondo delle infrastrutture che oggi come ieri permette di sperimentare nuove scale d’intervento e nuove figure. Aeroporti, certo ma anche ponti e autostrade, gallerie, svincoli e rotonde, tracciati ferroviari; sono loro quei manufatti funzionali, quelle ‘architetture di servizio’ che non solo presiedono al funzionamento del mondo e allo scorrimento dei suoi flussi sempre più intensi, ma che sono chiamati, soprattutto, a ‘dargli forma’, presentandosi, spesso, come unici elementi di orientamento e riferimento. Costruzioni pregne di identità in paesaggi antropizzati, la cui crescente estensione e globalizzazione si traduce a volte pericolosamente in un’anonima progressiva omologazione, tendenza che il progetto di Shenzhen Bao’an ha saputo rifiutare con fermezza.