di Maddalena Padovani

“Milton Glaser diceva: lavora solo con le persone che ti piacciono (You can only work with the people you like, ndr). Abbiamo deciso di fare nostro questo motto che riassume il nostro approccio al progetto, dove le persone, i rapporti umani, le affinità di animo e di pensiero vengono prima di qualsiasi altra cosa”.

Ha le idee molto chiare Massimo Orsini quando parla di Mutina, il marchio su cui nel 2005 ha deciso di riversare l’esperienza maturata fino a quel momento nell’azienda di famiglia, scommettendo su una visione della ceramica ‘altra’ che non trovava spazio all’interno di un tradizionale modello imprenditoriale. Tutto all’interno del suo headquarter parla di questa assoluta chiarezza di vedute, che prima ancora di declinarsi in una collezione di prodotti di grande successo si esprime in una sensibilità e un modo di essere fortemente percepibile.

Si parte dal luogo: Fiorano Modenese, il cuore del distretto ceramico italiano, un addensato di capannoni industriali che parla di operosità e voglia di fare. Già in lontananza la sede Mutina mostra la sua diversità rispetto agli anonimi fabbricati che la circondano: non con i toni gridati dell’architettura più alla moda, ma con quelli sobri e intellettuali dei sistemi costruttivi messi a punto da Angelo Mangiarotti e qui applicati, agli inizi degli anni Settanta, da un allievo di Carlo Scarpa. “Ho visto questo edificio” racconta Orsini “e subito mi è piaciuto; mi ha ‘parlato’ e ancora non sapevo nulla della sua nobile storia”.

È proprio qui che nel 2005 l’attuale presidente del marchio getta le basi della sua avventura, coinvolgendo tre ex colleghi che prima di essere compagni di lavoro sono soprattutto amici: Giuliana, Emanuele, Michel. Con loro Massimo condivide un sogno ambizioso: fare della ceramica non un materiale di rivestimento decorativo ma un elemento integrante dell’architettura, una superficie vibrante dello spazio, una vera e propria materia di progetto capace di attribuire inedite qualità percettive agli ambienti in cui si colloca. Da qui la scelta di eliminare il colore e i tradizionali codici estetici delle piastrelle.

I riferimenti sono innanzitutto nel mondo dell’arte, di cui Orsini è appassionato cultore e collezionista da sempre: il minimalismo di Carl Andre, il color field painting di Mark Rothko, la poetica astrazione cromatica di Agnès Martin. Ma anche il design di matrice modernista, rappresentato dall’imperativo “less is more” di Mies van der Rohe, dal decalogo del buon progetto di Dieter Rams e dalla poliedricità espressiva di Bruno Munari.

“Abbiamo deciso di partire dalla materia pura e dalle possibilità che la tecnologia più moderna e le lavorazioni artigianali ci offrivano per sperimentare le sue potenzialità espressive come nessuno prima aveva fatto”, precisa il presidente di Mutina. “Ma per fare questo avevamo bisogno dell’occhio visionario di designer che sentivamo vicini per il tipo di ricerca sviluppata nel loro percorso professionale. Sapevamo perfettamente chi erano questi progettisti.

Non avevano mai lavorato nel mondo della ceramica – e questo per noi era importante – ma li ammiravamo da sempre per la coerenza di idee e di visioni su cui fondavano i loro progetti. Siamo andati da loro, gli abbiamo parlato dei nostri sogni, gli abbiamo spiegato che della ceramica era possibile fare un vero e proprio progetto di design. Non siamo mai partiti da un obiettivo specifico o da un disegno predefinito, ma da un processo di reciproca conoscenza. Le idee sono nate poi in seguito, in modo molto naturale”.

Questi designer si chiamano Patricia Urquiola, Tokujin Yoshioka, Rodolfo Dordoni, Ronan & Erwan Bouroullec, Edward Barber & Jay Osgerby, Raw Edges, Inga Sempé. Nomi di spicco internazionale che, a partire dal 2008, hanno ideato per e con Mutina una serie di collezioni fortemente connotate sia sul piano segnico che concettuale, rivoluzionando di fatto l’identità del materiale ceramico e il suo uso nell’architettura d’interni.

A questi protagonisti, che hanno contribuito a fare di Mutina un marchio di successo e una case history della nuova generazione del design italiano, Massimo Orsini e i suoi soci dedicano sette video che non parlano di prodotti ma raccontano sette storie di incontri, scambi umani, empatie e affinità elettive. I video non presentano una trama o un tema particolare. Nascono da una serie di domande non istituzionali sul rapporto che lega ciascun designer con l’azienda, ma la presenza delle sole risposte, il loro montaggio fresco, spontaneo, quasi casuale, dipinge più un pensiero corale che non tanti ritratti personali.

“Mi ricordo” conclude Orsini “la prima apparizione di Mutina al Salone del Mobile di Milano. Era il 2012 e avevamo non poche paure. Per esorcizzarle, abbiamo chiesto a questi grandi professionisti di venirci a trovare allo stand nello stesso momento. Nessuno ha mancato l’appuntamento, sono venuti tutti. È stato un momento magico, si è creata un’atmosfera meravigliosa che esprimeva un lavoro fatto soprattutto di condivisioni e relazioni umane. È quello che voglio raccontare di Mutina ed è quello che Mutina, spero, continuerà a rappresentare”.

 

Maddalena Padovani

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La frase di Milton Glaser che Mutina ha scelto come motto aziendale. Faceva da scenografia luminosa all’evento Path Dinner organizzato a settembre 2013 nella sede di Fiorano Modenese, con set up di Patricia Urquiola e food di Massimo Bottura.
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Massimo Orsini, presidente di Mutina, con Patricia Urquiola, la prima designer a entrare nel gruppo.
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Massimo Orsini con Rodolfo Dordoni.
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Massimo Orsini con Inga Sempé.
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Ronan e Erwan Bouroullec.
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Massimo Orsini con Jay Osgerby e Edward Barber.
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Tokujin Yoshioka.
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Yael Mer & Shay Alkalay dello studio Raw Edges.
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Acuni fotogrammi dei video che Mutina ha realizzato per raccontare la sua storia.
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Erwan Bouroullec
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Patricia Urquiola
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Shay Alkalay di Raw Edges
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Inga Sempé