Mario Ballesteros, direttore di Archivo Diseño y Arquitectura, ci illustra il significato del suo MXCD, México Ciudad Diseño, il laboratorio triennale che integra la città come macro-progetto di design e ricerca negli ambiti integrati di ambiente, produzione e comunità

 

Testo di Mario Ballesteros

 

Molto presto diremo addio al 2018. È stato un anno ricco di illusioni, di tensioni e di importanti cambiamenti per il Messico e per il design messicano. A ottobre si celebreranno i cinquant’anni trascorsi dalla più importante vetrina di design nella storia moderna del nostro Paese: i Giochi olimpici del 1968 a Città del Messico; ma anche dal massacro di studenti che ha oscurato la manifestazione, scosso la società e definitivamente cambiato la nostra storia politica.

Sempre a ottobre ci troveremo ad aspettare, dopo una storica giornata elettorale, un’altra fase di cambiamento politico nata dal desiderio di salvare un Paese lacerato, diviso e flagellato dalla violenza, dalla disuguaglianza e dalla corruzione. Sempre a ottobre Città del Messico cederà il titolo di World Design Capital (WDC2018).

Un paio di anni fa, su queste stesse pagine, ho pubblicato la mia lista di desiderata per il WDC2018: una sintesi di tutto quello che, sul momento, avevo trovato rilevante e promettente riguardo a quell’onorificenza. Ora che le celebrazioni, i discorsi, gli eventi dettati dal protocollo e i brindisi sono terminati, possiamo fare una valutazione di ciò che per Città del Messico ha significato essere la capitale mondiale del design e, soprattutto, che cosa ne sarà di lei, una volta ceduta la corona.

Come una biennale di architettura o un campionato mondiale di calcio, il WDC2018 è stato un evento effimero che da solo non è servito a modificare in modo radicale il futuro del design di Città del Messico. Sembra infatti che le aspettative abbiano superato i risultati: tanto fumo e niente arrosto, come si suol dire. Il principale contributo del WDC2018 allo scenario locale è stato quello di produrre un picco di attenzione mediatica attorno al design.

Questo fatto ha avuto dei risvolti positivi, per esempio quello di aver attirato l’attenzione delle autorità governative e di parte dell’establishment che, fino a quel momento, non avevano mai considerato degna di nota questa pratica culturale ed economica.

Tuttavia, l’evento ha anche prodotto un certo depauperamento, soprattutto nella comunità dei designer e, purtroppo, concentrando gli sforzi e il discorso su un così piccolo gruppo di professionisti, prospettive e interessi, ha promosso un’immagine distorta e molto limitata dell’effettivo e attuale stato del design a Città del Messico (CDMX), con tutte le sue contraddizioni.

Dal 2016, partendo dalla ricerca speculativa e in modo più intuitivo che visionario, con Archivo Diseño y Arquitectura, ci siamo dedicati all’esplorazione indipendente e alla critica dello stato in cui versa il design presente, passato e futuro di Città del Messico.

 È a questo lavoro che si deve la serie México Ciudad Diseño, o MXCD, costituita da tre mostre e un libro in cui la città stessa viene proposta come un grande progetto di design in grado di raccontare un’altra storia osservata dal punto di vista della cultura materiale. MXCD copre un periodo che va dall’inizio del ventesimo secolo a oggi e poi fa un salto qualitativo e riflessivo nel design locale del prossimo futuro, analizzandone punti di forza e di debolezza, certezze e insicurezze, potenziale e sfide più urgenti.

Giocando con l’acronimo ufficiale della città (il CDMX che il governo ha deciso di registrare come marchio), MXCD ribalta anche la visione “escludente” che caratterizza il design messicano. Anziché accontentarci delle celebrazioni, ci interroghiamo su questioni che consideriamo urgenti e sul lavoro che riteniamo utile a costruire una città migliore per tutti. Questo esperimento di tre anni ci ha ovviamente permesso di scoprire nuovi talenti e progetti promettenti, ma anche di mettere a fuoco i problemi che il design locale ha emarginato per decenni.

In poche parole, MXCD può essere ricondotto a tre linee d’azione e di indagine che, a nostro avviso, costituiscono l’agenda di un progetto più mirato e rilevante per Città del Messico, tracciando i limiti – abbastanza diffusi, in verità – dello stato attuale della disciplina nella capitale messicana.

La prima linea riguarda l’ambiente. In una metropoli che vive di estremi come CDMX è impossibile, e irresponsabile, non prendere in considerazione condizioni ambientali (una città di origine lacustre costruita in una zona altamente sismica), materiali, demografiche, economie locali come punto di partenza per la creazione di un design adeguato. È tra rischio e resilienza, tra informalità e innovazione, che viaggiano alcuni dei progetti di design più interessanti della città. Accade a tutti i livelli: dai piccoli interventi quotidiani di Carla Valdivia, Alberto Odériz o Fabien Cappello, ai sottospazi ispirati al disordine abituale della collettiva APRDELESP, fino alle complesse analisi sistemiche dell’ORU – Oficina de Resiliencia Urbana.

La seconda linea d’azione riguarda la produzione. Alcuni dei cambiamenti più significativi nel design di CDMX coinvolgono i nuovi strumenti e le forme di lavoro: delocalizzazione delle strutture produttive, acquisizione di nuove tecnologie – quella deliziosa confusione tra high tech e low tech – e diffusione della “conoscenza tacita” e della cultura dei maker.

Si tratta di iniziative che vanno oltre i cliché e complicano la retorica dell’innovazione, sottolineando il riadattamento e il riutilizzo, la copia e il bootleg come elementi base per una cultura quotidiana open source. È un discorso che si sviluppa nelle carrozze della metropolitana in cui Abel Carranza distribuisce le sue audiomóviles elettroniche, ma anche nell’architettura post-digitale di Andrés Souto, nelle elucubrazioni sulla blockchain di Pablo Somonote o nella promiscua contaminazione digitale del collettivo ASCO media.

Il terzo focus di indagine si riferisce alla comunità. A CDMX, una città carica di pregiudizi consumisti e individualisti, non ha molto senso difendere il concetto di design user-centered.

Il design per le persone, in Messico, è più vicino alle nuove forme di gestione e organizzazione collettiva e contraddistinto da un progressivo abbandono dei ruoli tradizionali: un design in grado di minimizzare le suddivisioni per categoria e identità – da quelle di genere allo stereotipo del “messicano” – e che approfondisca temi urgenti e scomodi quali razzismo, machismo, violenza, libertà politica e sessuale, ecc. Qui il design si mescola a moda, festa, attivismo e costruzione di immagini, in proposte come quelle di NAAFI, Sánchez-Kane e Guerxs.

Tutto ciò è solo un piccolo assaggio di quello che speriamo di mettere in pratica con México Ciudad Diseño. Uno sguardo puntato sulla scena locale del design: tumultuosa e precaria, ma traboccante di promesse e venti di cambiamento. Proprio come la stessa Città del Messico.

 

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Un’immagine del lavoro México Ciudad Diseño (MXCD) curato da Archivo Diseño y Arquitectura, in cui la città viene integrata in un grande progetto di design. Sullo sfondo, intervento di Andrés Souto, in primo piano quello di Bárbara-Sanchez Kane.
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Sempre dal progetto MXCD, fotografia (sullo sfondo) di PJ Rountree e design (nell’immagine in primo piano) di Carla Valdivia.
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Un progetto di Bárbara-Sanchez Kane.
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Totomoxtle di Fernando Laposse.
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APRDELESP - Los empalmes (2015), una stazione articolata nel tianguis (mercato) su calle James Sullivan (Jardín del Arte).
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Fotografia di PJ Rountree (sullo sfondo) e progetto di design di Fabien Capello (in primo piano).
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Il designer Abel Carranza ritratto dalla fotografa messicana Melba Arellano e, in primo piano, un lavoro di NAAFI.
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Sullo sfondo, una interpretazione progettuale di Alberto Odériz e, in primo piano, di Oficina de Resiliencia Urbana.