Sorprendentemente (ma forse non troppo), la profondità di questa metafora scientifica può essere di riferimento per la lettura di un fenomeno che interessa sempre più la cultura del progetto, ma i cui confini teorici appaiono ancora spesso sfrangiati e di difficile definizione: l'intersezione fra arte e design. Un fenomeno qui riferito ad alcuni giovani, ma già affermati, designer europei e medio orientali che, grazie a un 'viaggio attraverso lo specchio', quello dal loro Paese d'origine alle gallerie di New York, hanno trovato un naturale approdo.
Uno sguardo su tale realtà era già stato gettato da Interni, esattamente un anno fa, con l'articolo Oltre Frontiera, in cui Domitilla Dardi osservava come il lavoro svolto da diversi autori statunitensi con le gallerie newyorkesi stesse spostando l'orizzonte del design americano, per tradizione improntato al pragmatismo, alla semplificazione e alla 'fierezza seriale'.
Un'analisi ancora più interessante se rapportata all'impostazione progettuale europea che, per quanto sfaccettata e difficilmente riassumibile, si distingue da quella americana per quella che potrebbe essere definita la sua 'quota d'arte immanente'. Basti pensare all'uso esplicito dei linguaggi artistici da parte di molti grandi maestri del design italiano: dai readymade di Achille Castiglioni, al primitivismo di Ettore Sottsass Jr. alle incursioni cinetiche di Enzo Mari.
Provenendo da tale contesto, le giovani generazioni di designer europei sembrano trovare oltre oceano – ma anche oltre la frontiera dell'arte e del mercato – un'occasione per “correre il doppio”: una strategia di rinnovamento dei linguaggi plastici che tende a generare forme sempre più complesse. Non a caso, il progetto-manifesto di questa attitudine porta il nome paradigmatico Distortion (2017): promosso da una galleria di forte carisma come Friedmann Benda, porta la firma delle giovane libanese Najla El Zein (1983).