L’architettura è sempre stata in cima ai miei pensieri. Non si passa dall’architettura al design e tantomeno dal design all’architettura. Si tratta di talenti tangenti, ma diversi, non necessariamente intercambiabili, che in modo distinto vanno coltivati. Il cosiddetto “Design” fa riferimento soprattutto alla scala della sfera personale, del corpo nello spazio. L’architettura coinvolge fatalmente la nostra dimensione di abitanti, alla grande scala pubblica e urbana e implica una diversa nozione di durata e permanenza”. Mario Bellini, milanese, classe 1935, una laurea in Architettura nel 1959 con Ernesto Nathan Rogers e un curriculum vitae di indiscutibile spessore, che spazia a 360° dall’architettura al design, dai progetti di masterplanning a quelli di allestimenti per mostre e musei, è ancora fortemente convinto però che “Può essere più difficile disegnare una sedia – rimasta praticamente invariata da millenni – che un grattacielo o un’automobile, perché ha a che fare non banalmente con lo stare seduti, ma anche con la nostra visione del mondo, con le sue e le nostre culture antropologiche. Con i nostri comportamenti privati e pubblici, che vanno alle radici dei nostri riti abitativi”. (Corriere della Sera, settembre 1979). Tutto ciò detto da un progettista che da più di 25 anni si dedica soprattutto alla sua prima passione,l’architettura, ma si impone sul palcoscenico del design italiano, all’età di ventisette anni, vincendo il primo Compasso d’Oro nel 1962 – per un tavolo, praticamente il suo primo disegno. Nel corso degli anni, tra gli altri innumerevoli riconoscimenti ricevuti, i Compassi d’Oro diventeranno otto. Il secondo nel 1964 per la sua prima macchina da ufficio (la marcatrice magnetica CMC7 in Skinplate della Olivetti). E che Bellini non sia una meteora, ma un autentico talento, si percepisce già dagli esordi. Sorprendenti. Certo, gli incontri fortunati nella vita aiutano. Non bastano però da soli a costruire un percorso così denso e autorevole. Due sono gli incontri felici: Augusto Morello, direttore dell’Ufficio Sviluppo de La Rinascente, che gli offre, neolaureato, nel 1960 l’opportunità di una consulenza per il progetto di una linea di arredi da commercializzare in esclusiva nei grandi magazzini milanesi. E, poco dopo, Roberto Olivetti che gli offre, nel 1963, una ‘consulenza’ per progettare il nascente settore delle macchine elettroniche. Una collaborazione professionale intensa durata sino al 1991, durante la quale Bellini ha disegnato più di 100 macchine, molte delle quali propongono tipologie innovative e nuovi parametri estetici. Emblematiche, quali la Programma 101, calcolatore elettronico da tavolo del 1965, di fatto il primo personal computer al mondo, con le superfici trattate come una ‘pelle organica’ per stimolare un innovativo rapporto uomo-macchina più friendly e non traumatico. Poi, Divisumma 18, macchina elettronica del 1973, che mette ancora in primo piano il tema della pelle e del contatto fisico uomo-oggetto, quasi ‘sensuale’, con tasti-capezzolo, integrati con la superficie complessiva del manufatto, prolungamento-totem della mano, traducendosi in “un contenitore-membrana continuo in gomma gialla”. O ancora, il Quaderno Laptop, del 1992, antesignano di ogni moderno personal computer portatile. “L’elettronica, con la sua intrinseca rivoluzionaria impostazione ‘aperta’, è ciò che mi ha consentito di, o meglio sfidato a ‘inventare’ dei tipi di cui non esisteva il precedente: le macchine dell’era post-meccanica che avrebbero segnato il passaggio al nuovo mondo informatico-digitale”. In questo quadro di riferimento, il nostro disegna anche il mangiadischi portatile GA 45 Pop per Grundig/ Minerva, una slanciata “pochette” in ABS di vivaci colori con un manico in nastro metallico che è l’iPad del 1968; e pochi anni dopo, nel 1971, un rivoluzionario sistema hi-fi per Brionvega: un cubo compatto e minimale articolato in tre volumi che si apre come un ‘albero della cuccagna’ per svelare altoparlanti, quadro di controllo, piatto del giradischi. “Emerge in tale vettorialità” scrive Matteo Vercelloni “l’idea di Bellini di pensare al design non in modo ideologico, sottolineando piuttosto la necessità di un’invenzione continua e il rifiuto delle tipologie convenzionali, con risultati importanti e modelli di riferimento per il design italiano. Il suo percorso progettuale è strettamente integrato alle logiche del prodotto industriale”. Nella personale convinzione che “il designer è qualcuno che agendo in un determinato tessuto della cultura industriale dovrebbe catalizzarne le potenzialità e avviarle a esprimere uno stadio successivo nel processo continuo del progetto collettivo. Il designer è solo una parte del design; il design non è che una parte del progetto industriale; il progetto industriale è un momento del flusso storico del progetto collettivo”. Nel frattempo Bellini prosegue le già collaudate collaborazioni con Cassina, B&B Italia, Vitra (di cui è stato consulente dal 1980) e altre major del settore (da Artemide a Flou), che generano una serie di prodotti assurti al ruolo di icone della storia del design, di estrema attualità anche oggi. Come la seduta evergreen Cab 412, disegnata per Cassina nel 1977: per la prima volta, la sintesi di un elementare telaio d’acciaio con un ‘abito’ integrale di cuoio chiuso da quattro cerniere lampo (ne sono stati già venduti più di 600.000 esemplari). O ancora la famiglia di imbottiti Le Bambole, disegnata nel 1972 per C&B e poi rivisitata nel 2007 da B&B Italia, Premio Compasso d’Oro 1979: l’interpretazione di un paesaggio domestico dinamico e flessibile, che condensa l’immagine del divano nella figuraarchetipo del cuscino, in un unico involucro “imbottito” di soffice poliuretano espanso, senza struttura. “Esistono tanti design quanti ne esprimono il mutare dei tempi e le diverse culture parallele” scriveva nel 1984 sulla rivista MODO. Una posizione fuori dal coro, la sua, l’ha definita Enrico Morteo “lontana tanto dai fautori del buon design di matrice razionalista quanto dai più ideologici sostenitori del design radicale o anti design” ha scritto, precisando che “senza aderire a concetti-slogan, Bellini incamera da subito nella nozione di funzione l’ampiezza di una dimensione ambientale in cui convergono la fisicità del corpo, l’eredità della storia e le opzioni della tecnica… facendo del design un luogo di sperimentazione che coniuga invenzione con uomo-oggetto e valori architettonici-archetipi relazionabili ai paradigmi di volume, spazio, materia, luce, trasparenza e colore. Sintesi razionale, come personale risposta innovativa rispetto a un modo d’uso ‘convenzionale’ della cose e degli spazi. Non è un caso che il MoMA di New York gli dedichi nel 1987 una personale in omaggio ai suoi primi 25 anni di carriera coronata con la presenza di 25 opere nella collezione permanente del museo. A partire dal Kar-a-sutra, prototipo di un’automobile concepita come spazio abitabile flessibile che Bellini aveva disegnato nel 1972 proprio per la mitica mostra Italy: the New Domestic Landscape del MoMA; riconosciuto oggi, dagli storici, precursore della rivoluzione dei monovolume contemporanei. Lui stesso, in prima persona, ha ampiamente raccontato le radici e il significato del proprio lavoro di architettura e design, tramite una prolifica attività accademica ed editoriale, quest’ultima suggellata con la direzione della rivista Domus dal 1986 al 1991. Oggi sappiamo molto di lui. Quanto alle immagini evocative da lui impiegate per precisare un concetto o un’idea: “sono figure provenienti dai contesti più diversi, tratte dai miei ricordi di viaggio, dal patrimonio della storia dell’arte oppure dall’immenso archivio delle forme naturali”. Poi, nello specifico di una radiografia, le passioni: “Tanta Musica: classica, operistica e jazz, Bach, Schubert, Stravinskij, Shostakovich. E anche Le Corbusier, Kahn, il ‘900 italiano. Tadao Ando, la cucina, la fotografia, viaggiare, il Giappone (il Paese in cui è già stato 130 volte, un record)”. Gli Artisti preferiti? “Picasso, De Chirico, Francis Bacon, Piero della Francesca e Tintoretto che dipingeva con le mani”. Gli Autori? “Italo Calvino, George Simenon, Stendhal”. I Fiori ? “Le acacie, i fiori profumati dell’infanzia, nel parco di casa dei nonni a Gallarate, durante gli anni della guerra”. Nel recente design di Bellini si percepisce una nuova esplicita sensibilità al tema dell’eco-design. Basti pensare alla famiglia di imbottiti (Stardust, Via Lattea, Piccola Via Lattea), progettata per Meritalia tra il 2007 e il 2009: un creativo bricolage di materiali ‘poveri’ – maglina d’acciaio, tessuto traslucido in fibre riciclate, vaso Shanghai, disegnato per Kartell, 2012. tema di ricerca: la sfaccettatura multiforme e multicolore del PMMA. Vassoi della famiglia dune, disegnati per kartell nel 2009: in tecnopolimero termoplastico colorato in massa e scolpito dall’interno, variano intensità cromatica e luminosa, generando illusione tridimensionale. Sogni infranti, vaso in vetro di Murano disegnato per Venini nel 1992. una riflessione sulle forme del passato che incontrano frammenti colorati del presente (i cocci delle lavorazioni mal riuscite). Accanto, due vasi della collezione canneti, venini, 2012. imbottitura di ravioli d’aria da imballaggio, led interni a basso consumo – che definiscono semplici e leggerissimi volumi eterei e luminosi, realizzati senza stampi. Ma si coglie anche come la leggerezza delle maglie metalliche e la fluidità dinamica delle superfici ondulate siano una sua predilezione elettiva, considerato che le adotta entrambe per il progetto del Dipartimento delle Arti Islamiche al Louvre e per il progetto-concorso architettonico dello storico StadtMuseum di Berlino nel 2008. Allo stesso nucleo linguistico si possono far risalire i vassoi Dune e le grandi coppe Moon (2009-2010) disegnati per Kartell in massa di plexiglass colorato trasparente, sfruttandone la straordinaria proprietà di rifrazione luminosa. Gli ultimi lavori presentati foto di marco curatolo quest’anno, durante il FuoriSalone milanese, esplorano due precisi e distinti ambiti di ricerca. Da una parte gli accessori: pezzi quasi unici quali la famiglia di vasi, piatti e coppe Chimera creati in vetro soffiato per Venini dove la reinterpretazione di forme classiche si coniuga al presente con l’applicazione di colorati cocci e scaglie in vetro (scarti delle lavorazioni mal riuscite), come provocatoria sfida al convenzionale piacere della decorazione. O, sempre per Kartell, ancora prodotti seriali, come i vasi Shanghai, in plexiglass, che sembrano sprigionare luce dalle sfaccettature prismatiche di minerali cristallizzati. Dall’altra gli elementi d’arredo, che rivelano una grande fiducia nell’inesauribile serbatoio d’energia creativa incamerato nelle decadi Sessanta/Settanta, gli anni del Bel Design italiano. Come il tavolo Pantheon realizzato da Cassina che reinterpreta il tavolo-icona La Rotonda disegnato da Bellini nel 1977, di crescente successo: archetipo architettonico con gambe a x tridimensionale in legno e piano rotondo in vetro, oggi tutto legnomassello con incastri a scomparsa e un grande oblò centrale: un piano girevole in cristallo, che ruota al solo tocco della mano, ispirato alla convivialità orientale. Un mix tra gestualità antiche e contemporanee, tradizionali usanze d’Oriente e moderna tattilità dei tablet. O ancora la lampada a sospensione Nuvola per Nemo Cassina: tutta in materiale plastico, riattualizza in chiave industriale una lampada ideata da Bellini nel 1974 in occasione della presentazione del suo Pianeta Ufficio per Marcatrè, sistema di mobili per il lavoro, con le innovative appendici rotonde per le riunioni che da allora diverranno una prestazione universalmente adottata. Con la medesima risposta alla ricorrente domanda già formulata circa quarant’anni fa: “In che modo deve porgere la luce una lampada? In un modo che non risulti invasivo nell’ambiente”. Saranno pure corsi e ricorsi. Ma ciò significa anche che per Bellini le radici hanno un preciso valore. Da coltivare con sapienza nel tempo. Non sarà un caso che da trent’anni abiti a Milano in un edificio anni Trenta di Piero Portaluppi, nella stessa casa-autoritratto ‘rinverdita’ di recente con un intervento dell’artista londinese David Tremlett e che poi lavori (dopo essersi trasferito dalla corte cinquecentesca del Seminario Arcivescovile) nello stesso studio in zona Navigli da vent’anni, in un’ex fabbrica recuperata, 2000 mq con ballatoi in acciaio zincato, volte a capriate a capanna, ampie finestre, spazi aperti e luminosi. Ed è proprio qui che continuano a prendere corpo i progetti e le appassionate realizzazioni dell’architetto milanese worldwide, dall’Australia al Giappone, dagli Emirati Arabi alla Cina, agli Stati Uniti, da Mosca a Francoforte o Parigi. Non sappiamo cosa Bellini non abbia ancora disegnato che gradirebbe portare avanti come sfida e cosa si sente di dire ai giovani di tutto il mondo affinché possano diventare dei buoni progettisti del Duemila. Parlano per lui le sue opere. Molte finite e già ampiamente documentate, come i progetti di allestimento per mostre e musei che hanno fatto il giro del mondo (in questo senso la grande mostra sull’architettura del Rinascimento italiano, allestita nel 1993 a Palazzo Grassi, Venezia, poi a Parigi e a Berlino, docet). Altre sono ancora in fieri, tra cui il Parco Scientifico-Tecnologico degli Erzelli a Genova; l’ampliamento e la ristrutturazione della Pinacoteca di Brera a Milano; il Centro culturale di Torino; il MIC, Milano Convention Center alla Fiera di Milano (Portello), destinato a essere il più grande d’Europa. Per le più recenti, quali il Museo della Storia di Bologna (2004-2012), il Dipartimento delle Arti Islamiche al Louvre di Parigi (2005-2012) con Rudy Ricciotti, le Green Towers della Deutsche Bank di Francoforte, (2007-2011), rimandiamo nello specifico alle pagine seguenti. Questo perché, alla fine, il luogo del design non può che essere l’architettura. Con i paradigmi di riferimento della sua rigorosa e complessa progettazione. Che vuole, in primis, il progetto come un responsabile atto sociale, non confinabile tra i muri e le stanze di uno studio. Poi, un forte legame contestuale dell’architettura con l’esperienza diretta che non deve mai mancare di puntare sulla qualità delle sequenze spaziali, sottolineate dalla materia e dalla luce. E, sulla tecnica, il ponte attraverso il quale si concretizzano le idee. “La difficoltà maggiore per l’architetto è quella di emozionare e dare significato, dissimulando l’immenso sforzo progettuale e costruttivo che sta dietro all’opera” ha detto. E neanche con il design il compito è più facile.